di Sergio Caserta
(Qui la prima parte). La successiva Legge Basevi (decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577), all’art. 26 definiva i requisiti mutualistici. Agli effetti tributari si presume la sussistenza dei requisiti mutualistici quando negli statuti delle cooperative siano contenute le seguenti clausole:
- divieto di distribuzione dei dividendi superiori alla ragione dell’interesse legale ragguagliato al capitale effettivamente versato;
- divieto di distribuzione delle riserve fra i soci durante la vita sociale;
- devoluzione, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati, a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico. In caso di controversia decide il Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, d’intesa con quelli per le finanze e per il tesoro, udita la Commissione centrale per le cooperative.
Queste norme erano riassunte nel principio democratico di “una testa un voto”, vincolo assoluto adottato da ogni cooperativa. Le innovazioni legislative introdotte nel corso degli anni, hanno contribuito a modificare la struttura societaria, finanziaria e anche l’identità cooperativistica, accompagnando il processo di “ibridazione”.
La legge Pandolfi del ’77 esentava dalle imposte il reddito delle cooperative accantonato a riserve indivisibili e non distribuibile tra i soci, una norma sicuramente importante per dotare le cooperative di maggiori capacità finanziarie. Una seconda legge del 1983, denominata Visentini bis, consentiva che le cooperative potessero costituire o essere azioniste di società di capitali: questo provvedimento di fatto aprì le porte ad una profonda modificazione della struttura imprenditoriale cooperativa, proiettandola nel regime privatistico da cui in precedenza era esclusa.
Fu un bene? Penso che col senno di poi si sarebbero dovute prevedere procedure più rigide per non incorrere nei problemi di snaturamento dei principi cooperativistici sociali e di mutualità derivanti dalla disinvoltura con cui furono gestite queste nuove opportunità. Nel 1992 la legge 59, istituì le azioni di partecipazione cooperativa APC e la figura del socio sovventore, strumenti per accrescere la capacità finanziarie e di capitalizzazione e finanziarie.
La Legge 23 dicembre 2000, n. 388 Art.17 contiene l’interpretazione autentica sull’inderogabilità delle clausole mutualistiche da parte delle società cooperative e loro consorzi: gli effetti di questa norma restano ancora da comprendere. Se da un lato il concetto di “mutualità prevalente”, pur introdotto con requisiti quantitativi, può essere interpretato come una spinta a rinverdire lo spirito cooperativo, dall’altro non si può non valutare negativamente l’obiettivo esplicito, contenuto nella legge, di trasformare le cooperative in società di capitali.
La mutazione degli anni Ottanta
L’esperienza personale di cooperatore iniziata alla fine degli anni Settanta mi ha consentito di partecipare direttamente alle vicende che hanno riguardato una delle fasi di più intensa trasformazione del movimento cooperativo, aderente alla Lega. L’age d’or della cooperazione comincia dalla fondazione dei grandi consorzi, avviata a metà degli anni Sessanta con in campo commerciale Coop Italia e Conad, nel campo dei servizi CNS, in quello degli appalti e nelle costruzioni CCC-CONACO.
Queste strutture hanno costituito un volano per il movimento cooperativo, in particolare utilizzando la leva finanziaria (Unipol-Fincooper) per realizzare piani di sviluppo e conquistare quote di mercato, anche nel Meridione. Contemporaneamente si affermava il mito della “grande impresa” quale elemento centrale e motore del movimento. Gli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta sono stati forse i più fecondi nel rapporto tra innovazione, sviluppo e aspirazione a una funzione di rinnovamento sociale della cooperazione. Dopo le cose sono rapidamente cambiate.
Uno degli aspetti meno indagati nella già scarne ricerche sugli sviluppi degli ultimi anni che ho vissuto direttamente, riguarda il cambiamento intervenuto nelle strutture dirigenziali della cooperazione, conseguenti all’affermarsi di grandi imprese a carattere regionale o nazionale. Il confronto nel mercato con le imprese private di pari dimensioni, la partecipazione a grandi appalti pubblici, l’introduzione di organigrammi e tecniche di gestione del personale tipiche dell’impresa privata, l’adozione dei contratti collettivi con i sindacati, hanno determinato una spinta a omologare anche il livello delle retribuzioni dei manager a quelli delle imprese capitalistiche.
Questa scelta, in parte dovuta a un’esigenza reale di rafforzare i settori in crescita tumultuosa con professionalità adeguate che non erano numerose all’interno, fu affrontata non senza conflitti d’interesse e ambiguità (tanti decidevano in fin dei conti per se stessi), contribuì a mutare definitivamente l’orientamento e la cultura d’impresa di uno stuolo di funzionari, costituendo in poco tempo le condizioni per la creazione di un élite. A metà degli anni Ottanta, nelle associazioni più forti, si modificarono i contratti di dirigenti adeguandoli pressoché interamente a quelli del settore privato, con una forte lievitazione retributiva, l’introduzione di mutue speciali per ricoveri e cure mediche particolari, dotazioni di benefit, appartamenti di lusso per i fuori sede, eccetera.
Tutto ciò però avveniva, invece che mediante un’attenta selezione della congruità e delle compatibilità, con le forme di automatismo tipiche di un’organizzazione di massa di emanazione sindacale, ovvero senza definire criteri di valutazione rigorosa, applicandola schematicamente per ogni tipo d’incarico, a prescindere dalla complessità o dalla competenza effettiva delle persone, nonché dalle risorse necessarie. Soprattutto con un principio di “egualitarismo politico” condizionato dal permanere di componenti partitiche che imponevano pressoché ovunque il raddoppio se non la triplicazione delle rappresentanze.
Questa proliferazione indistinta e generalizzata di alti livelli retributivi fu a parer mio la condizione per spingere la cooperazione ancor più decisamente verso una forma di falsa autonomia che diventò un “mercato parallelo delle professioni”, in cui si confondevano alleanze, appartenenze, incroci inconfessabili con le strutture dei partiti di provenienza che, persa ogni funzione di orientamento politico e culturale, diventarono ben presto le retrovie di accordi di potere per carriere altamente remunerative.
Non è un caso se questi cambiamenti accompagnavano anche le “strilla” sull’autonomia della cooperazione da ogni vincolo di partito, mentre il sodalizio restava intatto soprattutto nel soddisfacimento delle relazioni economiche con i poteri pubblici e si esplicava e si esplicano tuttora anche nelle indicazioni di voto.
L’evoluzione, o l’involuzione che dir si voglia, fu segnata in questi passaggi, inoltre, da vicende giudiziarie che anche in questi ultimi tempi stanno infliggendo alla cooperazione non poche mortificazioni. Tutto cominciò da Duina: il primo segnale che una gestione manageriale troppo personalizzata non s s’addiceva a un movimento cooperativistico a carattere collettivo, fu la vicenda che colpì nel 1977 il presidente nazionale di Legacoop Vincenzo Galletti, che con qualche elemento di improntitudine (o per obbedire a una pressione politica) obbligò la Lega con una lettera di patronage impegnativo a garantire l’acquisto della società industriale sull’orlo del fallimento, senza avere ricevuto un preciso incarico dagli organismi, costringendo la cooperazione a rimborsare un enorme somma di danaro che contribuì a un aggravamento della situazione generale.
Circa dieci anni dopo in Campania, un altro scandalo locale coinvolgeva l’intera struttura della Lega regionale, nella vicenda denominata delle “cooperative di ex detenuti”, ovvero un’indagine della magistratura scopriva un giro di false fatturazioni, utilizzate dagli uffici amministrativi della Lega e delle altre centrali cooperative, per coprire spese non documentate, che sottintendevano una gestione non corretta di danaro pubblico. Anche quella vicenda causò un traumatico rivolgimento non solo nell’organizzazione campana ma produsse effetti negativi anche nella presidenza nazionale, fino a quel momento retta con brillante capacità da Onelio Prandini.
Giungiamo al 1992 l’epopea di Mani pulite e le indagini che coinvolsero anche se in misura non particolarmente rilevante il movimento cooperativo, se si eccettua il caso Greganti, che tenne accesa l’attenzione dell’opinione pubblica sul sistema degli appalti e delle tangenti anche a sinistra. Nel 2006, il caso Unipol-Bnl divenne paradigmatico delle conseguenze negative di una gestione centralizzata di un enorme potere finanziario nelle mani di alcune persone, dotate di alte capacità e di ancor più elevata spregiudicatezza, che in un sistema che deve invece fondarsi sul principio di democrazia economica, non può esistere.
Su questo argomento c’è un’ampia letteratura. Esso ha segnato in maniera indelebile un cambio di fase storica. La sconfitta culturale e anche politica della sinistra in Italia, la perdita di credibilità di un’intera classe dirigente, sono state le conseguenze a lungo termine, anche di quest’operazione che voleva coniugare imprenditorialità d’assalto e conquista dei “salotti buoni della finanza” per una cooperazione che avrebbe dovuto, invece, continuare a occuparsi soprattutto della sua missione economico-sociale.
Rimando su questo a un mio scritto agli albori della vicenda, scritto che avanzava qualche dubbio di legittimità sul piano dei principi cooperativistici e giuridici, prima che le indagini giudiziarie scoperchiassero tutte le responsabilità, quelle note, di chi ha pagato, ma anche quelle rimaste nascoste.
La sequenza non si è interrotta: passando per Milano e per la vicenda che coinvolse Penati allora presidente della Provincia ed il Consorzio Cooperative Costruzioni, si è poi sviluppato negli ultimi dieci anni un coinvolgimento sistematico in tutti i più grandi scandali che hanno riguardato il sistema degli appalti pubblici, fino a Expò, Mose e “mafia capitale” con il coinvolgimento di cooperative e strutture aderenti alla Lega.
Sembra oggi aprirsi finalmente una fase di ripensamento autocritico, la nuova dirigenza afferma che è necessaria una rifondazione di cui però non si comprendono ancora distintamente i tratti. Nel caso della cooperazione non è separabile il raggiungimento di buoni risultati economici dalla coerenza etico-sociale dei comportamenti, che è indispensabile per non compromettere i principi su cui fonda l’esistenza stessa della cooperazione; va da sé che ciò è sul pieno dell’etica pubblica qual è purtroppo il nostro.
La cooperazione resta un importante soggetto sociale ed economico del paese, solo se riesce a ritrovare la bussola di una sua rinnovata identità. Ovviamente non si può preconizzare un “ritorno alle origini” della cooperazione eroica e ideologizzata dei “braccianti e carriolanti romagnoli che bonificarono Ostia costituendovi una comunità anarchico-libertaria”, come è descritta nel bel romanzo di Valerio Evangelisti. Anche in una società moderna, è possibile ridare dignità ad una realtà che avrebbe tutte le potenzialità per poter tornare a svolgere una funzione economica e sociale utile alle lavoratrici e ai lavoratori e al Paese.
Questo articolo è stato pubblicato su Critica Marxista sul numero 4 del luglio-agosto 2015