di Sergio Caserta
Circa i problemi che sono stati posti, pare che essi siano stati chiariti abbastanza bene dai compagni che sono intervenuti. Le vostre risoluzioni sono molto concrete, precise e danno delle direttive, dei consigli che i compagni si attendevano. Una sola questione di principio è sorta e sulla quale, dopo quel che ha detto il compagno Longo, non mi pare che ci sia bisogno d’intervenire; se qualche compagno aveva avuto qui delle espressioni che teoricamente noi non approviamo (nel senso che hanno indicato la cooperazione che oggi si svolge in regime capitalista come socialista) credo che i compagni hanno compreso la nostra critica.
In realtà, in regime capitalista, la cooperazione non si sottrae alla legge del profitto come non si sottrae, a tale legge, l’industria nemmeno nel periodo della costruzione del socialismo. Vorrei però che i compagni comprendessero che il fatto di aver precisato questi punti della dottrina non significa che “noi svalutiamo la cooperazione quale oggi è, una scuola di socialismo per i lavoratori, per il sindacato, per il partito”.
Così Palmiro Togliatti nel 1946. Ho preso “alla lontana” il tema dell’identità cooperativa perché l’intervento del segretario del Pci al primo convegno dei cooperatori comunisti del dopoguerra mette in evidenza, in un rigo, un tratto essenziale e caratteristico della sua idea di costruzione di un progetto di socialismo in Italia. Togliatti e il Pci affidavano un ruolo strategico alla cooperazione come strumento per la partecipazione da protagonista delle masse alla ricostruzione del Paese e alla realizzazione di un nuovo modello di società, non come soggetto di lotta al capitalismo.
A riconferma dell’importanza assegnata alla cooperazione, nel dibattito alla costituente fu avanza la proposta d’inserire la “proprietà cooperativa” nel testo fondamentale, sostenuta personalmente anche da Togliatti, ma venne battuta. L’emendamento, che non venne nemmeno votato, recitava che “la proprietà è pubblica, cooperativa e privata. I beni economici possono appartenere allo Stato e agli enti pubblici, alle cooperative e ai privati individualmente e collettivamente”.
Cooperazione e capitalismo
Questo emendamento, se accolto, avrebbe delineato sul piano giuridico e quindi anche su quello economico, societario e culturale una funzione della cooperazione di straordinaria importanza, definendo un diverso campo delle possibili variabili di un modello di società in cui la proprietà a carattere di mutualità e sociale avrebbe rivestito pari dignità delle altre due sfere. Una vera e propria rivoluzione che gli interessi forti e la dominanza cattolica non potevano accettare.
Il tema della funzione della cooperazione in regime capitalista, restava al centro del dibattito tra i cooperatori comunisti. Lo riprende Agostino Novella nella conclusioni del secondo convegno dei cooperatori comunisti del 1949 (appena tre anni dopo il primo):
Il convegno ha posto con chiarezza l’esigenza di dare un ulteriore impulso a tutta l’attività specifica della cooperazione, a tutte le sue iniziative economiche, e nello stesso tempo di accentuare il carattere di massa della cooperazione, il carattere combattivo di questo movimento […] il Sistema economico cooperativo non può entrare in urto con il sistema capitalistico fino al punto di esserne un elemento di rottura, ciò per il semplice motivo che l’attività della cooperazione è, per sua natura, un’attività che resta fondamentalmente di tipo capitalistico. Solo dimenticando cosa significa economia socialista si può confondere l’economica cooperativistica in regime capitalista con l’economia in regime socialista.
Qualunque cooperativa deve soggiacere al regime capitalista in cui vive, non può non tener conto della legge del profitto, che non può dare al salario ai suoi dipendenti un carattere socialista perché detto salario è, e sarà sempre, in regime capitalista, un salario di sfruttamento […]- Non può perciò sfuggire alle leggi che dominano la formazione dei prezzi sul mercato, come diceva Lenin ‘In regime capitalista la cooperazione prende il carattere di un’azienda capitalista collettiva.
La funzione della cooperazione fu per lungo tempo argomento rilevante e parte integrante del dibattito teorico e politico sui modi in cui si poteva combinare l’economia di mercato con l’aspirazione al socialismo. Nello stesso tempo il sistema delle imprese cooperative, rinato dalle ceneri del fascismo, viveva una fase di intensa crescita, attraverso l’azione di cooperatori appassionati, come Giulio Cerreti, animati da straordinario impegno e rigore ideologico.
Questo processo di crescita aveva già vissuto tappe importanti dal dopoguerra, come scrive Valerio Castronovo, con “un grande risveglio dal basso”:
C’era, senza dubbio, nei primi spezzoni del risorto movimento cooperativo una forte carica innovatrice, sorretta da un’autentica fede e passione politica. Ma sarebbe azzardato affermare che questo stato d’animo si traducesse in istanze politiche autonome, in una sorta di movimento spontaneo alternativo o conflittuale con gli indirizzi ufficiali dei partiti della sinistra.
C’era piuttosto l’aspirazione a contare di più, il desiderio che venisse riconosciuto alla cooperazione un ruolo primario nella ricostruzione del Paese… È vero che in molti militanti circolava l’idea che le cooperative fossero “cellule” di una nuova società, o che la cooperazione fosse “un’isola socialista” nell’ambito del sistema capitalistico. Ma si confidava intanto sull’appoggio delle autorità governative e soprattutto sulla sanzione dei diritti della cooperazione che sarebbe venuta dalla carta Costituzionale.
Il periodo dagli anni Sessanta è stato un progressivo percorso di crescita e di cambiamento della cooperazione, attraverso fasi diverse che l’hanno caratterizzata sia sotto il profilo politico che economico: lo sviluppo di una diffusa rete di imprese e di un’organizzazione di rappresentanza con una propria fisionomia; un movimento molto articolato che, mano a mano che si affrancava dagli antichi legami ideologici e dalla dipendenza dai partiti di provenienza, coltivava l’ambizione di porsi come terzo soggetto tra pubblico e privato, tra Stato e mercato.
A partire dagli anni Ottanta questa evoluzione è sfociata in una modificazione di natura, nell’identificazione piena della cooperazione con la cultura economica del capitalismo, mentre perdevano significato i valori mutualistici e sociali.
La forma-cooperativa
Per comprendere meglio le dinamiche dei cambiamenti, è opportuno ripercorrere in un breve excursus l’evoluzione legislativa inerente la cooperazione. Le norme fondamentali che avevano inquadrato la forma cooperativa come una società diversa destinata a creare un lucro privato erano in primo luogo l’art.45 della Costituzione:
La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità. La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.
Questo articolo è stato pubblicato su Critica Marxista sul numero 4 del luglio-agosto 2015