Una generazione dimenticata: i poeti sovietici

12 Settembre 2015 /

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Una generazione dimenticata: i poeti sovietici
Una generazione dimenticata: i poeti sovietici
di Luca Mozzachiodi
Dopo aver dato spazio a molte novità è tempo di spazzare un po’ di polvere dagli scaffali della cultura, recuperare qualche opera dimenticata. Questa volta si tratta di una vecchia ma importante antologia degli anni Sessanta dedicata dallo slavista e poeta Angelo Maria Ripellino ai Nuovi Poeti Sovietici; sovietici sì, non russi e già questa denominazione ci pone davanti ad un primo problema non solo letterario.
Poco sopravvive oggi nella coscienza dei lettori, dico ovviamente dei lettori colti di poesia e questo è significativo sulle condizioni degli altri, della grande messe di poesia composta nell’ex Impero Russo e nell’Unione Sovietica nel secolo scorso, appena i nomi di Majakovskij, Esenin, Blok e Mandel’stam, assieme, se proprio vogliamo essere ottimisti, alla Achmatova e alla Cvetaeva galleggiano tra i flutti del mercato editoriale, spesso resistendo grazie ad antologie in collane economiche di classici e a vaghe formule critiche: l’acmeismo, la partecipazione al futurismo di Majakovskij, l’epica contadina che innamora e il paesaggismo per Esenin, insomma bene o male sopravvivono dietro una piccola canonizzazione come i poeti dell’epoca di una rivoluzione tradita e dunque tanto più poetica quanto più tradita.
Salvo ovviamente non conoscere ormai pressoché nulla di quella rivoluzione e di chi l’ha fatta, non ricordiamo quasi per nulla i poeti che l’hanno vissuta nelle sue conseguenze e che nella società che ne è derivata hanno svolto la loro opera; solo Evtušenko dei quindici presenti in questa antologia pare ancora essere minimamente noto e principalmente come poeta d’amore o di metapoesia, ma perché questa strage culturale?

Chiaramente si tratta del tipico caso di giustizia sugli sconfitti, senza farsi troppi problemi tutti quei libri, assieme ad altri più compromettenti potremmo dire, sono stati tolti dagli scaffali e impacchettati per la soffitta, nel buio medioevo dittatoriale e nella grigia e piatta esistenza di un paese come l’Unione Sovietica non può esserci arte degna di questo nome né poesia che è prodotto di società libere; ecco in poche parole la spiegazione che giustifica l’oblio nella vulgata.
Aprendo però questo volume ci stupirebbe invece la diversità dei temi e dei registri: vi trovano posto quadri di paesaggio, liriche amorose, meditazioni filosofiche, ci si può muovere dai versi ironici di Zabolockij ai secchi e commossi appunti di guerra di uno Sluckij che non hanno, a mio parere, molto da invidiare al nostro Ungaretti, alle parabole cosmiche di Voznesenskij. Il tutto senza la minima traccia del trionfalismo da burocrati che molti ignoranti immaginano trovare nella poesia di autori vissuti nell’URSS e convintamente comunisti, complice anche la sapiente scelta.
Nemmeno il grigiore operaistico e l’enfasi di propaganda pervade queste liriche, anche se certo non manca un qualche orgoglio di appartenenza esso tuttavia si manifesta più spesso nella consapevolezza di essere parte di una nazione vasta, dalla struttura sociale complessa e dalla storia millenaria che sta imprimendo un segno indelebile nel futuro dell’umanità, ma al posto di odi allo Sputnik leggeremo numerose, bizzarre e a volte comiche altre pensose, riflessioni sul comportamento delle specie aliene e dei terrestri in relazione, al posto di fanfare e parate per la vittoria troveremo una Seconda Guerra Mondiale di stenti, di vedove, di giovani amori spezzati.
Non bisogna infatti dimenticare che con i suoi ventitré milioni di morti l’Unione Sovietica è stato il primo paese per perdite, di cui più di dieci milioni sul campo e aggiungerei dalla parte giusta, occorre ricordarlo quando pare che gli unici a combattere il nazifascismo fossero qualche migliaio di partigiani, possiamo aborrire quanto ci pare il patto Molotov ma è un fatto che la bandiera che ha salvato l’Europa non era azzurra né tricolore e che i ventitré milioni non erano Stalin.
Un numero così alto di perdite devasta intere generazioni e in questi poeti lo sentiamo assai più fortemente di ogni possibile gioia per la vittoria, se si parla di letteratura a tesi, o che sembra avere una specifica intenzione sul lettore, allora non è possibile non notare che le forzature in questo senso sono assai maggiori in tanta poesia fintamente progressista di oggi, che si sforza a suon di pianti e fanfare di farsi una dignità civile, che nel più politico di questi autori; anzi spesso dànno il meglio nelle raffigurazioni della natura e delle stagioni, dell’immenso paesaggio russo della tajga e nelle scene di vita contadina o suburbana e lo fanno consapevolmente!
Anima la loro scrittura una sorta di fede pacifica nella poesia, quasi romantica, con l’uso di tradizionalissime quartine, rese tra l’altro ottimamente dal traduttore, e di un linguaggio quotidiano per raccontare appunto la vita; questa poesia così immediata e profonda sorprende se posta accanto alla coeva poesia occidentale, anche italiana, così mediata e cerebrale, intenta alla filosofia e ad una profondità tanto nascosta quanto questa è superficiale.
Oltre a un’importante esortazione ad essere anche scopritori del passato recentissimo, ad allontanarci di tanto in tanto dalle secche della troppa poesia contemporanea e sorprenderci a capire che la novità sta dietro di noi, così come a diffidare della cultura dei vincitori per fare della pietra scartata dai costruttori una nostra pietra d’angolo, mi pare che l’insegnamento più alto che ci possano dare queste pagine a rileggerle oggi sia che molto può essere detto, che deve essere detto chiaramente e senza falsa coscienza e che la difficoltà e l’oscurità siano solo un segno dell’altezza della materia e della complessità dei tempi, non il viatico all’elitismo di anime belle, colte e ricche perché l’arte deve essere soprattutto comunicazione.

L’arte è morta se non ha scintille
e non tanto divine quanto umane,-
perché la sentano quelli che spianano
la tajgà impenetrabile.
(A. Voznesenskij)

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