di Luca Mozzachiodi
Capita a volte, e da sempre è capitato, che ai poeti si chieda di intervenire a qualche commemorazione o in qualche altra occasione pubblica o di qualche gruppo e si chieda loro di leggere qualcosa in memoria di un avvenimento o di una persona, rientra tra i compiti, possiamo chiamarli così, del poeta in senso più tradizionale, farsi veicolo di una memoria collettiva; non diversamente Omero, o gli aedi di corte, avrebbero preservato e suscitato la memoria delle guerra Troia e delle gesta degli eroi.
Certo la faccenda si complica con la scoperta della scrittura, poi con le cronache, che ci piaccia o no, per fare un bell’esempio, Dante sapeva benissimo che ricordare e raccontare la storia di Firenze spettava a Compagni e che il suo compito, in quanto poeta era piuttosto ricordare le vicende particolari, le singole vite dei dannati o dei salvati, e i destini universali nella misura in cui in sé incarnava la vicenda cristiana della salvazione. Più avanti narrare la storia diventerà sempre meno un’operazione retorico letteraria e sempre più una faccenda fatta di archivi, documenti, testimonianze, prove, insomma si avvicinerà ad una scienza e suppliranno a quel che manca la sociologia, la filosofia, l’antropologia e discipline affini.
Fino a ieri avevamo imparato a considerare queste importanti innovazioni di metodo come una conquista radicale della modernità, almeno i più accorti del resto si rendevano conto che tutto ciò irrobustiva il dibattito e rendeva più chiare le conoscenze senza dover sfociare nella ricerca dell’oggettività assoluta o nella sanzione di leggi deterministiche.
La convinzione che animava queste esigenze di metodo e prassi, aldilà delle singole scuole o filosofie, era l’idea che fosse possibile, in maniera più o meno stringente, stabilire nessi causali tra fatti e contesti ed elaborare interpretazioni, non perché servisse a divagazioni dotte certo, ma perché le comunità e i singoli potessero meglio elaborare strategie per il futuro, collettive o no, private o pubbliche, politiche o meno.
Dunque qual era o quale avrebbe dovuto essere il posto dei poeti? Si dirà. Il posto dei poeti, fino a ieri, era de facto alla rielaborazione di memorie collettive, nel lavoro con forme simboliche che riguardavano la comunicazione, nella trattazione di materia sentimentale, biografica o anche storica volendo, in maniera sintetica, non analitica, ma ben si sapeva che la storia era essenziale e che la storia non è la poesia, troncando dunque ogni ulteriore discussione teorica o ricostruzione archeologica in poche parole si poteva serenamente prender per pazzo chi avesse creduto di cavare maggiore sostanza per una comprensione razionale della Prima Guerra Mondiale da Ungaretti che da un saggio storico.
Fino a ieri dicevamo per metafora, è venuto lentamente un tempo di irrazionalismo montante che ha portato con sé la distruzione della storia come valore, come possesso fondamentale, altro che «il più esaltante dei possessi borghesi», come Pasolini lo aveva definito, piuttosto un’ingombrante zavorra, un insegnamento che non è stato appreso, una serie di sconfitte non affrontate, qualcosa insomma che la generazione precedente non ha in genere saputo trasmettere a quella successiva; questo pericolo, che i giovani scambiassero la storia con la memoria, una memoria a prestito nemmeno loro propria, era già evidente a molti intellettuali, oltre allo stesso Pasolini anche Fortini ne scriveva chiaramente dalle colonne del Corriere e del Manifesto, ricordo questi sia perché esempio di poeti che non avevano smarrito la coscienza di sé in questo guazzabuglio, sia perché proprio per la loro posizione di poeti sono tra quelli che chi si è invece perso ama figurarsi involti nel medesimo errore, ovviamente senza nemmeno sospettarlo.
La discesa verso una nuova età arcaica, nella quale in nome di strane leggi di moralità universale, cioè il più delle volte di moralismo spicciolo, si abdica alla conquista del senso storico della modernità e ci si tuffa allegramente nella memoria sentimentale sembra non arrestarsi, eppure ha i suoi sinistri pregi, apparentemente costituisce una valvola di sfogo del senso di oppressione che ognuno di noi prova, permette di risanare ferite personali, ha anche qualche ombra di democratizzazione, giacché elimina quel possesso della storia, cioè coscienza delle sue leggi, come privilegio di classe, dei più colti e istruiti ovvero dei più ricchi, niente di meglio in un momento in cui l’istruzione e quella pubblica soprattutto è sotto attacco ideologico e materiale.
In questo quadro i poeti tornano a cantare, a cantare come le sirene il canto che sa tutto, ma che fa naufragare chi lo ascolta: si tratta di un gioco pericoloso, da una parte c’è l’illusione di un rinnovato mandato sociale, dall’altra la più nuda realtà del clericato di una nuova religione mortuaria; troppi giovani vi sono oggi cresciuti e vi vengono educati, sostituendo alla storia la memoria, segnatamente la memoria dei morti, l’orrore irrazionale si accumula, la possibilità di comprendere il passato e cambiare il futuro si fa sempre più solo ipotetica, alla fine manca persino la giustizia per i venerati defunti, da che mondo è mondo dei è demoni non hanno bisogno della giustizia umana e passato e presente si riducono ad un insieme di accadimenti casuali che ci colpiscono, ci feriscono nella sensibilità e nel corpo, senza ordine o ragione, si resta impotenti a rammemorare passo dopo passo mentre la storia si converte in poesia e la formazione in informazione.
Non ho vocazioni profetiche, ma non penso di essere lontano dal vero se dico che di questo passo arriverà un’era in cui al posto delle ore di storia si insegnerà composizione diaristica e poetica, sarà allora la scuola di automedicazione di una società che non ha saputo farsi giusta, che ne ha perso persino il desiderio se non in vagheggiamenti sospirosi, per allora io spero di essere fuori sia dalla memoria che dalla storia di quella società.
Un piccolo, embrionale, assaggio di questa rischiosa idea del rapporto tra storia, memoria e ruolo della poesia ci è stato dato martedì 25, ad una lettura organizzata dal comune di Medicina alla quale ero presente. L’intento era rammemorare poeticamente la strage di Bologna, l’odore di gesuitismo morale e di compianto di Stato era difficile da sopportare per qualcuno, fortunatamente non tutti i poeti sono prefiche e chierici di questa nuova religione del nostro tempo.
A denunciare la terribile contraddizione cui questo atteggiamento conduce dietro di noi scorrevano uno ad uno i volti delle vittime su un proiettore, secondo la legge astorica della morte e del sangue, che tutto rende uguale, tra i volti maciullati per l’esplosione del 1980 e un volto maciullato a manganellate targate PD all’ultima Festa dell’Unità a Bologna, non deve essere posta alcuna differenza, entrambi devono essere coerentemente parte della nostra memoria. Questo non lo hanno capito, non lo hanno potuto capire.
Ubriacarsi di memoria annebbia i contorni di un disegno che ognuno di noi ha la responsabilità di fare in sé chiaro, vasto e preciso, è una difesa della propria e dell’altrui umanità, nella nuova memoria collettiva perfino grandi figure come Berlinguer e Pasolini perdono le loro connotazioni intellettuali, i loro messaggi politici, le loro individualità storiche e diventano santi da letterina buoni per tutte le stagioni, anche in casa di quelli che mai avrebbero riconosciuto loro simili o affini per intenzioni e prassi.
La fortuna di questi chierici è che, come scrive Czesław Miłosz, altro autore dal quale in termini di storia e poesia ci sarebbe molto da imparare:
«I morti non si leveranno a testimoniargli contro.
Puoi attribuirgli le azioni che vorrai,
La loro risposta sarà sempre il silenzio».