Arcipelago 'ndrangheta: come la mafia calabrese si è modernizzata

9 Settembre 2015 /

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Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta
Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta
Torna il libro inchiesta di Corrado Stajano Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta (Il Saggiatore), uscito nel ’79. Nella postfazione l’autore riflette sul modo in cui i gruppi criminali hanno saputo inserirsi con successo nei meccanismi e nei flussi della globalizzazione.
di Corrado Stajano
Avevo letto i racconti di Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente, sulla Calabria dei primi decenni del Novecento ed ero rimasto inorridito e turbato dalla povertà disperante degli abitanti di un paese di nome Africo, ai piedi dell’Aspromonte. Scrittore, archeologo, liberaldemocratico gobettiano, Zanotti Bianco era una figura di intellettuale politico ricca di fascino che dedicò anni a rendere migliori le inumane condizioni degli umili che vivevano in quella regione d’Italia.
Avevo visto anche le fotografie di rara efficacia di Tino Petrelli che con il giornalista Tommaso Besozzi, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto un reportage in quel paese il cui nome derivava forse dal greco aprikos o dal latino apricus. E poi, in quegli anni Settanta del secolo scorso, avevo letto le cronache quotidiane, spesso giudiziarie, che avevano per protagonista un sacerdote di nome Giovanni Stilo, definito «il prete padrone» di Africo, che i giornali di sinistra giudicavano «spogliato di ogni sacralità» e accusavano di un corposo malfare, proprietario di una scuola che sfornava diplomi a pagamento, in consuetudine con ministri e uomini del potere politico democristiano, vicino agli ambienti della ‘ndrangheta, la mafia calabrese. Il prete querelava ogni volta i suoi «diffamatori» e usciva sempre illibato dai processi.
Decisi di saperne un po’ di più e proposi a Giulio Einaudi l’idea di un libro su quel paese; ne avevo già scritti un paio per la sua casa editrice. Mi disse di andare a vedere, era incuriosito da quella storia, avrebbe voluto venire anche lui in quello sconosciuto luogo calabrese impastato dalla ‘ndrangheta, parola di origine grecanica, derivata da andragathos, l’uomo coraggioso, valoroso: l’onorata società della Calabria.

Quando si seppe di quella mia decisione diventai vittima di ironie. Andavo a mettere il naso in una terra dominata un tempo da un’organizzazione arcaica, ora morta e sepolta, con una simbologia in cui troneggiavano entità chiamate Osso, Mastrosso, Carcagnosso (Gesù Cristo, San Michele Arcangelo, San Pietro), infarcita di statuti, di gerarchie, di riti d’iniziazione, di giuramenti con il sigillo del sangue. (…)
Chissà se i giuramenti degli adepti rispettano ancora oggi l’antico rituale. La ‘ndrangheta è diventata la più importante e temibile organizzazione criminale del mondo. Ha una dimensione globale, lavorano al suo servizio banchieri, finanzieri, uomini corrotti, a molti livelli, delle istituzioni e della politica, notai, commercialisti, avvocati specialisti nel diritto internazionale privato, diplomatici, procacciatori di appalti pubblici e privati, esperti nel riciclaggio del denaro sporco, amministratori capaci. Gli ‘ndranghetisti possiedono fiumi di denaro. La droga e il traffico delle armi, in un mondo che disdegna ancora la parola pace, rappresentano il profitto primario dell’organizzazione diventata in numerosi posti l’azienda leader del mercato criminale, sopravanzando anche Cosa nostra siciliana. (…)
Non soltanto la droga e le armi: la ‘ndrangheta e i suoi affiliati posseggono interi isolati di città, catene di bar, di ristoranti, di alberghi, di centri commerciali, si occupano dello smaltimento dei rifiuti, della sanità, gestiscono banche clandestine e le trame dell’usura, le bische, il movimento terra, la compravendita di voti in cambio di favori inimmaginabili. L’atlante criminale della ‘ndrangheta – una multinazionale che ha una carta in più, quella del delitto e della strage nei confronti dei concorrenti temibili e fastidiosi – copre tutto il mondo: oltre all’Italia, soprattutto quella del Nord, il Canada, gli Stati Uniti, il Sudamerica – in particolare la Colombia – e, in Europa, la Svizzera, l’Olanda, la Germania, i Balcani. (…)
Non più dissimile da Cosa nostra, la ‘ndrangheta è governata da una centrale che, anche in Calabria, ha un potere assoluto sulle varie famiglie. Non esiste più l’indipendenza anarcoide di una volta. (…)
I figli e i nipoti della ‘ndrangheta analfabeta hanno lasciato coppola e lupara negli armadi di casa, hanno studiato, si sono laureati, in Giurisprudenza, Economia e commercio soprattutto, frequentando poi corsi di formazione nelle università più rinomate, dottorati, master, stage, e con questi raffinati bagagli seguitano, assai più pericolosi degli esponenti della ‘ndrangheta di paese che minaccia e spara – non ha certo smesso di farlo -, il lavoro di famiglia, solo un po’ modernizzato.
La ‘ndrangheta è simile a una monarchia ereditaria. Nelle cronache si ritrovano infatti, di continuo, gli stessi nomi, figli o nipoti. Anche i nomi del mio libro Africo ballano da un processo all’altro.
I discendenti hanno girato il mondo, ne conoscono usi e costumi, parlano le lingue, ma la casa madre resta in Calabria. Africo, Bianco, Platì, San Luca, Bovalino, Cittanova, Siderno seguitano a essere le radici dei «locali», i luoghi sparsi nei continenti dove gli uomini della ‘ndrangheta si incontrano per le «mangiate», i summit mafiosi, come un tempo quello famoso di Montalto, sull’Aspromonte, o quelli, annuali, della processione alla Madonna di Polsi. Magari adesso sono le suite dei grand hotel del mondo ad accogliere i capi ‘ndranghetisti laureati che distribuiscono là dentro «cariche e doti», i gradi e i poteri, come in un esercito, senza dimenticare mai, si è già detto, i luoghi natii, l’artigianato (diventato industria) del crimine sanguinante.
Sono passati più di 35 anni da quando, per la prima volta, arrivai ad Africo. Mi sembrò una caserma abbandonata dove dominava il grigio delle case spesso non finite, della scuola del prete, simile a un granaio dismesso, del municipio, con una torretta nel mezzo, costruito da un capomastro del paese memore dello stile di Mussolini urbanista. Non c’era nessuno, neppure un’anima nelle strade in quella tarda mattinata. Ma era soltanto l’apparenza, perché da dietro le persiane semichiuse, a pianterreno delle case, scorgevo occhi mobilissimi che osservavano circospetti lo straniero.
Il silenzio assoluto non mi sembrò sereno, ma innaturale. Dov’erano gli uomini e le donne del paese? Prigionieri dei muri di casa? I vecchi non sedevano neppure, come in tutti i paesi del Sud, sulle panchine della piazza. E dov’era chi lavorava? In campagna, dalla parte della fiumara, o verso la statale, dalla parte del mare? Un paesaggio desolato. La sensazione era di essere capitato in un paese coloniale squallido e abbandonato, anche se costruito soltanto vent’anni prima: intessuto di ombre. Il bar era deserto, persino la stazione, un po’ fuori dal paese, era deserta, ma quella targa, Africo Nuovo, era rassicurante, dava almeno la certezza che non mi ero sbagliato, ero arrivato veramente in quel puntino del mondo che avevo desiderato vedere. Ma come avrei fatto a scrivere il libro che mi ero ripromesso di scrivere, quel libro che Giulio Bollati, direttore della Einaudi, nel suo risvolto di copertina rimasto in questa edizione a segnare il tempo, quel tempo, definì «storia politica, narrazione, testimonianza, documento, inchiesta»?
Tutto risultò meno arduo, almeno apparentemente, di quanto avevo temuto. Abitavo a Roccella Jonica, una quarantina di chilometri da Africo, in una vecchia casa di pietra foderata di bougainvillea color porpora. Dalle finestre vedevo il mare, l’ambiente era più rassicurante che nel paese dove andavo ogni mattina e ritornavo la sera come un pendolare. Non incontrai mai don Giovanni Stilo nonostante l’avessi cercato, non parlai mai con una sola donna. Ebbi lunghi colloqui con Santoro Maviglia, personaggio antico, vecchio capo della ‘ndrangheta convertito in carcere alla politica e all’anarchia. I giovani erano i più disponibili ma il sospetto aleggiava sempre, reciproco. Spesso, lo capii dopo, avevo avuto torto a dubitare di qualcuno; qualche volta, invece, la ragione era stata dalla mia parte e ne restai amareggiato.
Si sapeva sempre tutto di quel che facevo, chi vedevo, dove, quando. Ero seguito da mille sguardi e da presenze interessate. Anche la mia visita a Catania dove andai a parlare con Rocco Palamara, un altro dei protagonisti di Africo, ricoverato all’ospedale dopo che era stato ferito, divenne materia di conversazione tra uomini e donne del paese, con dovizia di particolari veri o inventati.
La sensazione di solitudine che avevo avuto la mattina della prima visita era scomparsa quasi del tutto. Il paese si era un po’ popolato, i bambini giocavano nei cortili, i vecchi sedevano immobili sulle panchine, le donne facevano la spesa al mercato, s’incontrava qualcuno anche davanti alla chiesa che sembrava un manufatto non finito, con tre immagini dipinte sulla facciata biancastra, uno zappatore e una donna che reca doni a san Francesco, le braccia aperte a un mondo che non sembra volerlo ascoltare. Doveva esser stata un’allucinazione quell’immagine di solitudine disperata nell’isola sperduta del mio primo giorno di Africo.
Il libro viene pubblicato nel 1979, in gennaio. Sono anni infuocati. Nell’anno appena passato è stato sequestrato e ucciso Aldo Moro, la politica si è imbrigliata, il governo della «non sfiducia» traballa – durerà ancora poco -, il terrorismo continua a uccidere. Anche la mafia.
Ma è un tempo di passione, inimmaginabile oggi. L’opinione pubblica vuol sapere, discute. La questione meridionale, oggi scomparsa dalle agende della politica, allora è considerata un problema nazionale: non può essere risolto finché i poteri criminali, la mafia e la ‘ndrangheta, non saranno estirpati dalla Sicilia e dalla Calabria dove sono dominanti. (La camorra comparirà furente dopo il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Per godere dei frutti della ricostruzione.)
Africo suscita attenzione, dibattito, polemiche anche aspre. La televisione, Tg2 Gulliver, gli dedica un documentario di quasi mezz’ora. Scrittori, politici, antropologi discutono in modo non formale di quel libro, tra gli altri Giorgio Amendola, Piero Bevilacqua, Vincenzo Consolo, Tullio De Mauro, Giovanni Giudici, Mario La Cava, Giovanni Russo.
Ad Africo il libro provoca scandalo. Per i più don Stilo è un benefattore, chi ha delle riserve su di lui tace impaurito. Per tutta una sera se ne discute in una seduta del consiglio comunale del paese, tra insulti e qualche timida difesa. Il libro viene definito dai Dc di Africo «denigratorio e disgustoso»; i comunisti sono prudenti – gli anarchici fanno ombra -, il prete è pur sempre un interlocutore.
Il 31 marzo don Giovanni Stilo «sporge formale querela contro l’autore e l’editore del libro Africo , nel testo del quale sono contenute numerose affermazioni diffamatorie, aggravate dalla attribuzione di fatti determinati e finalizzate – come emerge da tutto il contesto del volume – a ledere profondamente e irreversibilmente l’onore, il prestigio e la reputazione del querelante sia come uomo che come sacerdote».
La giustizia italiana è solitamente lenta. Non in questo caso. Il 18 luglio autore ed editore di Africo sono invitati a comparire davanti al Tribunale di Torino, la città dove è stato stampato il libro.
Arrivavano nel mio studio di Milano telefonate di minaccia, anche di morte. Disturbanti. Pareva che quelle voci urlanti forassero i muri della quieta stanza. Giulio Einaudi, a Torino, trovava ogni giorno sottocasa uomini neri, immobili come le figure di uno sfondo di teatro. Disturbanti anche loro. Era come se facessero la guardia, intimidenti, all’uomo che li aveva offesi.
Un’aula del vecchio Tribunale torinese ospitava il processo. Il presidente, Elvio Fassone, fece in udienza l’istruttoria che il rito direttissimo non permetteva. Chiedeva, ascoltava, richiedeva, protagonista la ‘ndrangheta calabrese portatrice di violenza e di morte. Sedevo su una panchetta vicino a Giulio Einaudi nella luce flebile che veniva dagli alti finestroni. Don Stilo era arrivato a Torino con una piccola corte. I nostri avvocati, di gran nome, Vittorio Chiusano, Bianca Guidetti Serra e il più giovane Giampaolo Zancan, erano esperti e agguerriti. I processi di mafia sono difficili, è arduo provare la verità dei fatti. Non sono stati molti, negli anni, i processi di quel genere – mafia e informazione – andati a buon fine.
Elvio Fassone conduceva il dibattimento con autorità, non dava mai nulla per scontato. Capivo che il punto focale del processo erano quei nomi che nelle mie pagine non avevo fatto. Chi erano il coltivatore diretto, l’imprenditore, il professore di liceo, il commerciante, il sindacalista, l’impiegato? Erano persone in carne e ossa, non avevo inventato nulla di quel che mi avevano detto, a favore o contro il prete. Fedele allo spasimo. Non volevo dire chi erano, ben cosciente che alcuni di loro avrebbero rischiato la vita.
La richiesta del Tribunale era impellente, il processo era in bilico. Decisi così di fare il nome dell’allora presidente del Tribunale di Locri, Guido Marino, l’avevo incontrato un paio di volte parlando a lungo con lui. Anche se ora, per quieto vivere, avrebbe potuto dire di non avermi mai visto.
La sua lunga testimonianza davanti al Tribunale di Torino (il 13 novembre 1979) fu una vera lezione sulla ‘ndrangheta e su don Giovanni Stilo: cementò le accuse su di lui e aggravò la sua posizione processuale di querelante. Fu essenziale per la mia assoluzione. Ha scritto Elvio Fassone nella sua sentenza («Giurisprudenza italiana», aprile 1982): il consigliere Marino «ha non solo confermato la genuinità delle dichiarazioni che Stajano gli attribuisce nel libro sotto un riguardoso anonimato, ma ha arricchito il quadro con l’esperienza che deriva a colui che per molti anni ha goduto di un eccezionale osservatorio, quale poteva essere l’ufficio di presidente del Tribunale di Locri. La definizione di “prete, sceriffo, governatore” se non si sustanzia di numerosi fatti concreti (al di là di quello, peraltro non insipido, nell’ottica dei rapporti mafiosi, dell’intromissione di don Stilo nel ratto di una maestrina sequestrata da mafiosi) ha però tutta l’autorevolezza della fonte qualificata ed esperta, avvezza a distinguere tra prova e sospetto, ma capace di percepire come il sospetto – in un ambiente come quello africota – possa anche significare prova abortita, o inquinata o intercettata».
La sentenza del giudice Elvio Fassone è stata per me più gratificante di tante lusinghiere recensioni di letterati illustri. Ha toccato la miserabile vita di poveri cristi, la sopraffazione protagonista di un frammento dell’Italia abbandonata. Il diritto riconosciuto a chi scrive di informare, secondo le regole, di rivelare anche le piaghe più oscure e torbide della società italiana fa da cardine alla sentenza.
Qualche cenno. «È bene premettere che il requisito formale della comunicazione del pensiero – e cioè la “continenza” dei modi usati – non è in discussione, poiché lo stile di S. è costantemente sorvegliato e l’autore rifugge per quanto è possibile dall’adottare espressioni o giudizi propri, ricorrendo quasi sempre a testimonianze e a riferimenti esterni (…), con ampio ricorso a stralci di sentenze, requisitorie, atti giudiziari o di polizia». E poi: «La figura di don Stilo, pur essendo egli un evidente protagonista della storia locale, non la sovrasta, né la esaurisce. Non don Stilo, ma Africo è l’oggetto dell’indagine di S., perché è Africo il microcosmo dolente che riproduce pregi e difetti, speranze e corruzioni di tutto un modo di vivere, di una cultura e di un tessuto che sono i veri temi dell’impegno civile sotteso dal libro». E ancora: «S. è minuzioso nel riferire tutti i dati reperibili, talora addirittura con la pedanteria di chi sa di camminare su un terreno minato, e vuole sottolineare a ogni costo l’obiettività dei riscontri». E infine: «Chiunque voglia fare applicazione di questi principi (il diritto alla comunicazione del pensiero) alla materia trattata da S. (…), quel cancro sociale che è la mafia nelle sue varie accezioni, si rende immediatamente conto di come una accurata, costante e impegnata denuncia possa servire a quella maturazione collettiva delle coscienze che è l’unico argine possibile contro il fenomeno».
L’8 gennaio 1980 Giulio Einaudi e io fummo assolti dal Tribunale di Torino con la formula piena: «Il fatto non costituisce reato». In quei giorni i giovani comunisti della costa jonica della Calabria stamparono e appiccicarono ai muri dei loro paesi un manifesto che diceva: «Ogni tanto la prepotenza non vince».
Per me fu una medaglia al valore.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online che l’ha ripreso dal Corriere della sera del 3 settembre 2015

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