di Luca Mozzachiodi
Per parlare di questa autoantologia recentemente uscita, che raccoglie da tutti i volumi di poesia pubblicati da Sissa e aggiunge qualche inedito, si possono scegliere molte angolazioni, certamente anche più accademiche o letterarie in senso stretto, anche se ben dissimulata da una finta attitudine in minore è infatti presente una fitta rete di rimandi e reminiscenze da Montale a San Giovanni Della Croce, dall’amatissimo Giudici a Verlaine, che voleva «la musica prima di tutto» assunto che certamente questo poeta condivide come principio strutturante.
Trattandosi però di poesia dell’esperienza, come quella che scrivono oggi alcuni poeti spagnoli molto cari a Sissa, credo sia più giusto, una volta affermato che siamo di fronte ad un poeta europeo, per scelte stilistiche e formazione, e insieme con un forte senso di italianità, per naturalezza espressiva e sapienza metrica, domandarsi invece in quale senso questa esperienza possa dirci qualche cosa sulla nostra condizione e lasciare alla dotta postfazione del volume il compito di dissertazioni tecniche.
La prima cosa che mi colpisce è la data sulla copertina: 1990-2012, il tempo in cui questo libro è stato assemblato nelle sue varie parti è lungo esattamente quanto la mia vita, è chiaro che in questa situazione una lettura non può che essere l’interrogarsi reciproco di due generazioni, quella di chi è cresciuto nella provincia italiana degli anni del boom economico e quella di chi sulla propria infanzia e adolescenza ne ha sentiti gli effetti e il declino; dopo una prima parte infatti, in cui il movente esperienziale della poesia appare legato a casi individuali e alla definizione di un io colto in diverse attitudini, innamorato, vagabondo, educatore o più spesso tutti e tre insieme, il respiro si allarga, i toni diventano quelli di una poesia generazionale, dall’io e dal tu del dialogo amoroso si passa al noi, significativamente anche il titolo del poemetto che occupa la parte centrale del libro e che è a mio giudizio tra i testi più importanti della raccolta.
In quei versi meglio che altrove e a partire da questi sempre di più e con esiti più alti nel procedere del libro Sissa fa per il suo tempo quello che ogni buon poeta dovrebbe saper fare, dà voce alla sua generazione con il suo portato di ideali e ideologie, di speranze e di delusioni, ma anche più concretamente di casi della vita e di paesaggi e personaggi familiari; da qui vediamo i figli degli operai che studiano, le prime esperienze erotiche, così diverse dalle precedenti e ancora un po’ tradizionali poesie d’amore, il mondo del lavoro e la società classista della provincia industriale; da qui l’autore comincia a indagare, in parte a riscoprirsi dentro, sulla scia dell’Educazione Cattolica giudiciana, l’«ottimismo del catechismo», come recita il titolo di una sezione del libro.
Mi sono poi interrogato a lungo sul senso del titolo della sezione gemella, Ottimismo del Comunismo, e mi sono ricordato di quanto una volta mi diceva un amico: il comunismo lo capisci davvero quando sai che ti riguarda, quando hai fatto la fame; e forse è davvero così, forse occorre appartenere a qualche titolo alla schiera degli sfruttati, dei diseredati, degli emarginati sociali, bisogna aver fatto la fame, almeno una volta, per capire. Forse è proprio questo il motivo per cui non sono mai riuscito a convincere qualcuno a parole, pur con alla mano dati, date e lunga sequenza di crimini commessi dagli avversari del comunismo e conquiste sociali ottenute, della positività del comunismo e la certezza di poterlo fare razionalmente è proprio l’ottimismo, il probabile peccato di ottimismo, che lo anima, lascito nella mia generazione e in quella di Sissa, della scuola borghese che ci ha costruito tra i suoi banchi.
Ai confini della scuola borghese, un po’ emarginato un po’ lupo solitario, sta appunto questo poeta con il suo «mestiere dell’educatore», titolo del suo libro più importante oltre che reale mestiere dell’autore per tanti anni, che un po’ non si cura delle pedagogie dalle attitudini suasorie ed è attentissimo invece ai fatti di realtà, a documentarli in poesia, a difendere da essi sé e i bambini come racconta la bella sezione Cattiva Bambina; sulla vicinanza tra questo personaggio lirico e i bambini, così come sulla poesia come difesa, idea centrale del percorso di Autoritratto a mio parere, ci sarebbe molto da dire: Infatti questo poeta che parla di vita da operai e di comunismo non ha in mente nessuna poesia sociale in senso stretto, né alcuna volontà di militanza per un mutamento storico, piuttosto quella di costruire, attraverso il contatto con la vita, una difesa esistenziale che preservi la nostra integrità, la nostra ingenuità un po’ bambinesca; sarà fuori del decoro letterario svelare i segreti di Pulcinella di un’opera, ma non si può tacere che si capisce, a leggere bene i versi di Sissa, che secondo lui gli uomini sono buoni, pur corrotti e rosi da tante sconfitte.
«Dal grumo di dolore dove ridi» recita uno dei più bei versi del libro, un endecasillabo quasi dantesco, da Antiparadiso, dove non c’è nessuna luce mistica, nessuna Rosa dei beati, ma solo la spoglia sofferenza dei vivi eppure convive con il riso e se certo l’educazione alla sofferenza è uno dei tratti caratteristici soprattutto del secondo tempo di questo poeta, il riso, e non un riso distaccato, non manca mai, come sa chiunque abbia avuto occasione di trascorrere con lui il tempo di una lettura, persino il desolante Post scriptum, una tra le poesie più dure dell’intera raccolta, dove si arriva alla suprema negazione teologica, può essere letta anche in chiave di un sottile ribaltamento ironico.
Paradiso si intitola del resto una delle ultime sezioni, dove prosegue il confronto con la sconfitta storica, esistenziale e con la morte, altro grande tema del libro, in questo caso la morte di Giovanni Giudici, l’autore prediletto, ma altrove quella di amici e compagni, tra i quali il grande Ferruccio Benzoni, e che si chiude con domande e non con risposte.
Cosa risponderebbe dunque Sissa? Probabilmente come qualcuno prima di lui: «Mi ha fatto poeta la vita» e che così è stato per darle attenzione, questa attenzione si impara dalle sue poesie, così come alcune altre preziose lezioni: per fare i buoni uomini e i buoni libri ci vuole molto tempo, ventidue anni per questo che senza dubbio è un libro unitario, e le scappatoie intellettualistiche servono davvero a poco.
Il vero interrogativo, che un critico serio non può evitare di porsi, il problema di fondo della poesia esperienziale, ogni poesia ne ha uno, è se la poesia di questa esperienza, di questa generazione, riuscirà a sopravvivere al suo autore, alla generazione di cui parla, per tradursi in qualcosa di universale che metta «nel mezzo di una verità» che è cosa un po’ diversa da un’evidenza vissuta; ovviamente non ci sono risposte certe e si tratta in parte di mistero, ma la vocazione a essere maestro delle generazioni successive, come Sissa cerca con discrezione di essere, giocherà la sua parte, così come è stato per il suo maestro, quel Giovanni Giudici al quale ha voluto, significativamente, dedicare l’ultimo ricordo del libro.
Recensione di Autoritratto di Giancarlo Sissa, ed. ItalicPequod, 2015, postfazione di Alberto Bertoni, 170 pp., prezzo 15 euro