di Roberta Carlini
La povertà scoperta. In senso letterale: nel nostro paese, la povertà non è quasi per niente coperta dal sistema di protezione sociale pubblico, e siamo in questo diversi dal resto d’Europa. Lo sapevamo, lo “stress test” della crisi lo ha brutalmente confermato: la crisi del 2008-2014 ha fatto aumentare di un terzo il tasso di povertà e ci ha consegnato in eredità quattro milioni di “poveri assoluti” in più.
Negli altri paesi europei, i sistemi di protezione sociale hanno riparato di più dai colpi della crisi. Esordisce con la povertà, la prima relazione annuale dell’Inps gestione Boeri. E chiude con la povertà, ossia con le misure proposte per riformare il sistema previdenziale e sociale: tra cui un “assaggio” del reddito minimo riservato alle persone sopra i 55 anni e una penalizzazione delle pensioni più alte maturate con i sistemi previdenziali precedenti all’attuale (e le loro varie declinazioni per categorie specifiche).
Pensionati poveri e poveri senza pensione
Perché il presidente dell’Inps si occupa dei poveri? In parte, perché tra i suoi utenti ha molti pensionati poveri (l’istituto copre, con la sua attività, oltre i due terzi delle persone residenti in Italia). Lo dicono le tabelle sulla distribuzione delle pensioni: il 12 per cento dei pensionati prende meno di 500 euro al mese – l’importo medio in questa fascia è di 286,9 euro mensili – e dunque riceve, in percentuale della spesa complessiva, solo il 2,6 per cento.
All’estremo opposto, c’è un 4,6 per cento di pensionati che sta sopra i tremila euro al mese (importo medio al top è 4.335,9 euro mensili), e si becca il 15,2 per cento della spesa complessiva. La grandissima parte delle pensioni si addensa verso la zona bassa: nella seconda fascia, quella dei pensionati tra i 500 e i mille euro al mese, rientra il 30,4 per cento, con un importo medio mensile di 707,8 euro al mese.
Ma la disuguaglianza pensionistica è frutto della disuguaglianza del mercato del lavoro, oltre che di un sovrapporsi di regimi passati. Mentre quella economica generale, nell’anno 2014, è segnata anche e soprattutto dalle cicatrici della crisi. E proprio da qui partono le considerazioni dell’economista bocconiano, che non ha mai fatto mistero di considerare la nostra spesa sociale troppo sbilanciata a favore delle pensioni, rispetto agli altri capitoli. “La povertà è il problema numero uno del nostro sistema di protezione sociale”, scrive commentando i dati europei e italiani sul lascito della grande crisi: che non è tanto e solo l’aumento delle disuguaglianze, ma soprattutto l’incremento fortissimo della povertà.
Le disuguaglianze sono cresciute infatti, per virtù di un movimento al ribasso. Infatti, se negli anni della crisi il 10 per cento più ricco ha perso il 5 per cento del reddito, il 10 per cento più povero ha perso infinitamente di più: il 27 per cento. La relazione tra crisi economica e povertà si è mostrata da noi più stretta, diretta e amplificata dall’assenza di ammortizzatori sociali universali, come ha testimoniato anche il rapporto annuale della Commissione europea su occupazione e società nel 2014.
Il rapporto annuale Inps mostra, in proposito, un confronto impietoso: in Italia l’aumento di un punto percentuale del tasso di disoccupazione è associato a un aumento del tasso di povertà dell’1,4 per cento, mentre nella media degli altri paesi europei se la disoccupazione aumenta di un punto la povertà aumenta di 0,14 punti percentuali. Stiamo peggio anche della Grecia, dove la povertà sale di 1,2 punti per ogni punto di disoccupazione in più.
Sulle responsabilità di questo disastro, il presidente dell’Inps assolve l’Inps. Può funzionare meglio e dovrà essere riformato, dice, ma gli aspetti organizzativi pesano davvero poco: contano le leggi e la strumentazione del sistema. In quello italiano, su cento euro spesi solo tre vanno al 10 per cento più povero. E anche se togliamo il corpaccione della spesa pensionistica e guardiamo solo al resto delle spese sociali e assistenziali, si ha che solo il 7 per cento va al decimo più povero della popolazione. Vale a dire: i poveri, che dovrebbero prendere dallo stato sociale più degli altri, prendono invece molto meno.
L’uscita dallo stato dalla povertà attraverso il lavoro resta la strada maestra, dice Boeri, ma può non contenere tutti o essere insufficiente: come è successo proprio negli anni della crisi, quando i poveri non sono aumentati solo per la perdita dei posti di lavoro, ma anche perché pur continuando a lavorare hanno perso salario.
I working poor sono cresciuti del 50 per cento dal 2008 al 2013. E cresceranno ancora, si può arguire da altri dati che Boeri ha illustrato: delle nuove assunzioni fatte nei primi quattro mesi di quest’anno – con jobs act e incentivi fiscali – quasi un terzo riguarda lavori retribuiti meno di otto euro all’ora. A proposito dei dati sulle ultime assunzioni e l’effetto delle riforme di Matteo Renzi: il presidente dell’Inps ne parla abbastanza bene (lodando del resto quella che è una sua creatura, il contratto a tutele crescenti), ma dà anche il conto della misura sugli incentivi fiscali alle assunzioni a tempo indeterminato.
Se varrà per i contratti firmati entro il 2015, costerà, nel triennio, cinque miliardi; se si estenderà, come si dice, anche a quelli del 2016, il costo sale a dieci miliardi. Insomma, si tratta di incentivi “molto, forse troppo, costosi”. Che assorbono una grandissima quantità delle scarse risorse pubbliche.
Per la povertà, finora, è rimasto ben poco. E non può bastare affidarsi solo alla ripresa dell’occupazione: questa non riguarderà, per esempio, i disoccupati sopra i 55 anni, i primi dai quali partire, propone Boeri, per un avvio del reddito minimo. Si concentra sulla fascia d’età più alta anche un’altra delle proposte, ossia quella di permettere ai lavoratori e ai loro datori, anche quando sono già in pensione, di continuare a versare contributi, per aumentare l’assegno in futuro.
E poi: permettere una flessibilità in uscita, cioè far andare la gente in pensione a prescindere dalla soglia d’età, ma con una pensione più bassa (in base ai contributi versati). E chiamare a contribuire di più al sistema le cosiddette “pensioni d’oro”, quelle legate a specifiche categorie che hanno usufruito di gestioni speciali in passato – e che sono quasi tutte confluite nell’Inps – mantenendo però, per le pensioni in corso d’erogazione, gli status passati.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 9 luglio 2015