di Alberto Vannucci, presidente di Libertà e Giustizia
Da dove cominciare per provare a tirare le fila di questo percorso, che dal diritto alla libertà arriva alla Carta dei doveri del cittadino? Vorrei cominciare dal 23 maggio a Palermo, dalla commemorazione del 23simo anniversario delle stragi di Capaci e via d’Amelio, quegli attentati della mafia in cui tanti servitori dello Stato, tra loro i giudici Falcone e Borsellino, sono morti da uomini liberi per liberare la loro terra delle mafie, per restituire diritti e dignità al proprio popolo oppresso dalle organizzazioni mafiose e da una politica collusa con i poteri criminali.
Proprio all’ingresso dell’aula bunker dove di lì a poco si sarebbe tenuta la cerimonia, in mezzo ai lavori delle migliaia di ragazzi delle scuole e alle bandiere di Libera e della altre associazioni, c’era uno striscione che mi ha colpito. Era dell’Anpi, l’associazione nazionale partigiani d’Italia, e diceva: Partigiani della Costituzione. Per essere liberi da fascismo, mafie e corruzione.
Ho trovato un senso profondo in questo accostamento tra fenomeni in apparenza così lontani. Cosa hanno in comune fascismo, mafie e corruzione, in fondo? Moltissimo, a ben guardare. Li accomuna l’esercizio di un potere arbitrario, opaco, irresponsabile. Un potere intimamente autoritario, che spoglia la collettività di benessere e dignità, che espropria i cittadini di diritti politici e civili, trasformandoli in asserviti postulanti o sudditi impauriti. Un potere antidemocratico, funzionale solo a rendere sempre più potente e ricca la ristretta oligarchia di predoni che lo esercita: poco cambia se si tratti di gerarchi in camicia nera, boss mafiosi con la coppola, oppure i distinti faccendieri in doppiopetto delle cricche e dei comitati d’affari.
Certo, cambiano le modalità: il dispotismo violento del potere fascista e mafioso sembra distaccarsi dall’insinuante potere di acquisto che domina nell’universo della corruzione, dove tutto è in vendita. Ma a ben guardare la logica di mercato applicata laddove invece si dovrebbero rispettare regole poste a tutela del bene comune ha la stessa carica violenta e predatoria, soltanto abusa e uccide in modo diverso: le vittime della corruzione sono sepolte sotto le macerie di edifici costruiti con la sabbia al posto del cemento, crollati alla prima scossa di terremoto, vittime della corruzione sono i malati di cancro della terra di fuochi e dell’Ilva di Taranto, vittime della corruzione sono i funzionari e gli amministratori dello Stato lasciati soli davanti alle rappresaglie mafiose, vittime della corruzione sono tutti i cittadini privati dei loro elementari diritti alla salute, alla sicurezza, a vivere in un ambiente sano e protetto, espropriati di questi diritti a causa delle mazzette pagate a chi avrebbe dovuto programmare gli interventi ed esercitare i controlli pubblici.
Questo è il tempo della corruzione, ci diceva poco fa il prof. Zagrebelsky. Purtroppo in Italia questo tempo pare interminabile a chiunque ancora serbi un poco di memoria storica. La corruzione era il cuore del problema italiano nel 1981, quando Enrico Berlinguer sollevava inascoltato la questione morale, e invocava un rinnovamento dei partiti diventati solo macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. E’ cambiato qualcosa da questa tragica diagnosi di 34 anni fa? Sicuramente sì, ma in peggio.
E allora parlare di una democrazia corrotta significa andare oltre la corruzione fisiologica, quei maneggi di tangenti e appalti che pure riempiono le cronache. Diventa una democrazia corrotta quella in cui i leader di partito non percepiscono il problema dei politici impresentabili che si annidano nelle loro liste candidandosi a incarichi amministrativi, rinviati a giudizio o condannati per reati infamanti. No, il problema nasce perché qualcuno – in questo caso la Presidentessa della Commissione antimafia – quegli impresentabili finalmente si azzarda a identificarli, dona loro un volto e un nome, rendendoli almeno riconoscibili agli occhi dell’opinione pubblica. Il loro inserimento in quella lista del disonore non è stato decretata in modo arbitrario: i criteri sono definiti da un codice etico per la presentazione delle liste approvato all’unanimità dalla stessa commissione antimafia. Ma l’etica, si sa, è un parola dal sapore stucchevole, in Italia conviene spesso adattarsi a un’etica pubblica duttile e sostenibile, un’etica buona per tutte le stagioni, utile ai partiti soprattutto per operazioni cosmetiche. Abbiamo imparato in questi giorni che esiste una “modica quantità” di impresentabili in lista, e c’è persino una modica quantità di impresentabilità, a seconda del tipo di rinvio a giudizio, al di sotto della quale si può anche chiudere un occhio.
Ma una democrazia corrotta è quella in cui i partiti cessano di rappresentare il midollo della democrazia, un veicolo di promozione della maturazione civile, una catena di trasmissione delle domande politiche, un filtro per la selezione di una classe dirigente all’altezza delle sfide del governo. Nel tempo della corruzione i partiti si trasformano in strutture feudali, in un’accozzaglia di boss e sotto-boss che all’ombra di un uomo solo al comando si spartiscono quote di potere nello Stato e in tutte le sue articolazioni, per assegnare privilegi ed elargire elemosine alle loro clientele.
Una democrazia corrotta è quella in cui la corruzione si fa sistemica, e un’oligarchia di intoccabili depreda il bene comune utilizzando modalità e tecniche che ormai li rendono invisibili ai radar della magistratura e dell’opinione pubblica, perché hanno imparato col tempo ad affinare le più efficaci tecniche di dissimulazione, e quelle che un tempo erano volgari bustarelle ora diventano “tangenti pulite e fatturate”. E quelle bande di corrotti e corruttori “a norma di legge” si organizzano tra loro, si danno regole ed estendono la loro sfera di influenza, connivenze e complicità finché la stessa definizione di bisogni e interessi pubblici diventa puramente strumentale al loro profitto privato: sono loro ormai a decidere su quali terreni realizzare la grande esposizione universale, moltiplicandone miracolosamente il valore, quali forniture di cacciabombardieri acquistare, quali grandi opere realizzare, di dubbia utilità ma di indubbio spreco collettivo.
Perché in una democrazia corrotta ciò che conta è l’illusoria efficienza fine a se stessa del potere, la capacità per chi governa di produrre scelte drastiche e trovare soluzioni rapide senza l’impedimento dei corpi intermedi, senza l’impaccio dei contrappesi e dei contropoteri istituzionali, e magari un giorno, appena sarà possibile, senza più neppure le critiche di gufi e rosiconi. Non è dato sapere quali siano i valori sottesi a quelle decisioni, chi ne paghi il prezzo e quali ne siano gli invisibili beneficiari, anzi, ogni resistenza non può che sciogliersi nell’autoproclamazione delle proprie virtù riformatrici: davvero qualcuno può essere così insano da opporsi a una riforma per la buona scuola? I propugnatori di una cattiva scuola, magari?
Questo tempo, ce lo ricorda ancora il prof. Zagrebelsky, oltre che della corruzione è anche un tempo esecutivo. Ed è in questo tempo che una politica impoverita di ideali ma arricchita di capitali insegue freneticamente necessità ed emergenze più o meno fittizie, con continue accelerazioni, dissimulando dietro una patina efficientista un progetto di drastica trasformazione dell’architettura costituzionale. Ma siamo davvero sicuri che un modello di matrice gerarchico-aziendalistica sia quello che occorre al nostro paese per migliorare il funzionamento dello Stato ad ogni livello, dal governo nazionale, alla televisione, alle scuole? La sfera politica non andrebbe piuttosto innervata di partecipazione e coinvolgimento dal basso, soprattutto oggi che il disonore della classe dirigente tocca vertici mai raggiunti in passato, oggi che siamo assuefatti a tal punto al discredito delle istituzioni pubbliche che sembra normale che vi siano tornate elettorali, come quella di domenica, cui partecipa la metà appena dei cittadini?
Perché in definitiva la corruzione di una democrazia nasce dal basso, affonda le sue radici nella società. Per ogni amministratore pubblico corrotto c’è un imprenditore ben lieto di averlo a libro paga. Per ogni efficiente macchina clientelare che lottizza le istituzioni pubbliche c’è una legione di elettori felice di rinunciare al proprio esercizio del dovere civico di votare secondo coscienza in cambio di un favore, una promessa, un accordo. Perché gli impresentabili non vengono solo presentati dai partiti al giudizio elettorale, spesso diventano il traino per il successo delle loro liste. Lo scorso anno alle elezioni Europee il partito virtuale degli inquisiti e dei condannati per gravi reati – una formazione bipartisan, naturalmente – avrebbe superato di slancio la soglia di sbarramento grazie ai voti di preferenza ottenuti – oltre un milione e duecentomila in tutto. Duecentottantamila preferenze individuali hanno premiato il secondo candidato più votato in tutta Italia, che poteva esibire come medaglia al disonore civile una condanna in primo grado per corruzione, abuso d’ufficio, illecito finanziamento. Anche alle ultime regionali il partito degli impresentabili ha ottenuto l’elezione di ben tre suoi esponenti, uno addirittura come governatore, altri due hanno sfiorato il seggio.
Da qui occorre allora ripartire. Quando le regole della democrazia sono piegate a strumento per legittimare il potere corrotto si getta benzina sul fuoco della sfiducia dei cittadini, allontanandoli dal gioco politico oppure spingendoli alla ricerca di protezioni e favori. Sono da sottolineare le parole del nostro Presidente della Repubblica, che proprio ieri ha affermato che “prevenire e sradicare, ovunque si annidi, ogni fenomeno corruttivo e di inquinamento è una sfida ineludibile, in quanto sono in gioco (…) gli stessi principi di uguaglianza e di legalità sui quali si fonda il sistema democratico”.
Ma opporsi alla china del degrado vuol dire tornare alla nostra Costituzione, alla spina dorsale della nostra Repubblica democratica, di cui oggi celebriamo la festa. La nostra Costituzione, con tutte le sue imperfezioni, contiene uno straordinario serbatoio di energie collettive, che occorre riscoprire e valorizzare proprio in questo tempo di corruzione. L’antidoto alla corruzione della politica nasce – come detta la nostra Costituzione – proprio da una democrazia della partecipazione popolare, dove le decisioni collettive sono il prodotto finale di un percorso che si sviluppa tutto all’interno del corpo sociale, dove i diversi bisogni collettivi affiorano e trovano espressione grazie alle forme organizzative in cui gli individui si associano liberamente, confrontando e loro visioni di libertà e di giustizia.
Ma questo processo è faticoso, richiede impegno, dedizione, responsabilità. Ci chiede, proprio come lo striscione dell’ANPI che ricordavo all’inizio, di farci trovare pronti ogni volta occorra mobilitarci per difendere le nostre libertà, proprio come fecero i partigiani durante la guerra di liberazione dal nazifascismo. Perché l’esercizio effettivo dei diritti di libertà di tutti, soprattutto dei più deboli, richiede una preliminare assunzione di corresponsabilità, un riconoscimento condiviso del valore cruciale dei doveri di cittadinanza. Altrimenti quei diritti formalmente riconosciuti resteranno affermati solo sulla carta, e delle libertà che delimitano lo spazio di riconoscimento e disponibilità pubblica dei beni comuni si percepirà l’esistenza troppo tardi, quando qualcuno li avrà privatizzati, ne avrà prodotto il degrado, o li avrà cancellati per il proprio tornaconto.
Di qui la proposta lanciata oggi da Libertà e Giustizia: la formulazione di una Carta dei doveri del cittadino. Un testo che permetta a ciascun individuo che la sottoscriverà di assumere un impegno pubblico di cittadinanza attiva, un documento che sancisca che senza il tenace impegno di tutti quelli che si preoccupano del bene comune la democrazia ripiega su se stessa, si fa involucro vuoto, facile preda della corruzione e dei poteri criminali. Vorrei leggere le ragioni di questo impegno dal preambolo della primissima versione della Carta:
Poiché il rinnovamento della società non può che procedere dalla società medesima e poiché è illusorio sperare che possa procedere dai governanti ch’essa stessa esprime;
- poiché senza giustizia non c’è libertà, ma sopraffazione dei più forti sui più deboli che svuota di senso la democrazia e la rende indifferente o odiosa ai più;
- poiché oggi più che mai, in presenza di grandi disuguaglianze e ingiustizie, è necessario riaffermare che il vincolo sociale esige il rispetto di essenziali e reciproci doveri di cittadinanza.
Ecco, avviando da domani stesso il lavoro di discussione pubblica e di elaborazione finale del testo di questa Carta dei doveri del cittadino l’Associazione Libertà e Giustizia celebra oggi nella Festa delle Repubblica non una commemorazione rituale, ma l’occasione per riaffermare con maggior forza il proprio impegno di corresponsabilità nella ricerca del bene comune. Per adesso, come nel testo della bellissima canzone di John Lennon, possiamo solo provare a immaginare quale progresso della vita pubblica potrebbe realizzarsi in un paese nel quale la libertà di ciascuno trovasse un limite non soltanto nella libertà di altri, ma anche e soprattutto nei comuni doveri di impegno civile e di solidarietà politica, economica e sociale. Come canta John Lennon, non è difficile, se ci proviamo.
Questo articolo è stato pubblicato da Libertà e giustizia il 4 giugno 2015