Rom: dove sono andati i soldi?

8 Giugno 2015 /

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di Sergio Bontempelli
Ecco una notizia che, raccontata nel modo sbagliato, farebbe felice Salvini: per accogliere i rom nei centri di accoglienza, il Comune di Roma ha speso otto milioni nel solo anno 2014, circa 33mila euro a famiglia. È la somma che si ricava dalla ricerca Centri di Raccolta S.p.A., diffusa recentemente dall’Associazione 21 Luglio: l’anno precedente, la stessa 21 Luglio aveva accertato che per la gestione degli otto “villaggi della solidarietà” (cioè dei campi nomadi regolari e attrezzati), si erano spesi 17mila euro per nucleo familiare [si veda Campi Nomadi SpA, pag. 48].
Avete presente Crozza quando imita Salvini, e fa pronunciare al leader del Carroccio la fatidica frase «vi do un dato…»? Nel nostro caso, il Matteo padano potrebbe dire «vi do un dato: ogni famiglia rom riceve dal Comune di Roma 1.400 euro al mese se abita in un campo, e più di 2.700 euro (sempre al mese) se accolta in un centro di accoglienza». E a raccontarla così, vien proprio da pensare che sono dei privilegiati, questi “zingari”.
Il problema è che la storia non è andata affatto in questo modo: perché i rom, in realtà, non hanno mai beneficiato di questo fiume di denaro. A riempirsi le tasche sono state cooperative, imprenditori e aziende, che in molti casi figurano anche nelle inchieste su Mafia Capitale. Ma andiamo con ordine.
Come (non) funzionano i centri di raccolta
Dunque – dicevamo – il Comune di Roma ha stanziato otto milioni di euro per i cosiddetti “centri di raccolta”: strutture dove i rom vengono alloggiati temporaneamente, di solito dopo uno sgombero, in attesa di trovare sistemazioni migliori (almeno in teoria).

Il centro più noto è quello di Via Visso, chiamato “Best House Rom”: un’espressione inglese un po’ maccheronica, che si potrebbe tradurre più o meno come “la miglior casa per i rom”. È un nome dal sapore beffardo, visto che la struttura è senza finestre, senza luce naturale, e in stanze di 12mq vivono mediamente cinque persone (ne abbiamo parlato anche sul Corriere delle migrazioni). Non proprio “best”, insomma.
Nella capitale esistono tre “centri di raccolta” propriamente detti (Via Salaria, Best House Rom e Via Amarilli), più quattro strutture che dovevano essere “temporanee”, e che poi – come capita in Italia – sono diventate permanenti: Via San Cipirello, Via Torre Morena, Via Toraldo e ex Fiera di Roma. Di questi spazi, il “Best House” è sicuramente il peggiore, ma anche gli altri sono largamente al di sotto degli standard di un’accoglienza dignitosa.
Per di più, nonostante il loro carattere “provvisorio”, i centri di raccolta sono di fatto dei veri e propri luoghi di segregazione permanente. «Queste strutture», spiega Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio, «sono concepite per far restare le persone accolte il più a lungo possibile: lo dimostrano i dati sulle risorse impiegate dal Comune per il mantenimento dei centri. Della spesa totale nel 2014, il 90,6% è stato utilizzato per la gestione, il 4% per sicurezza e vigilanza, il 5,4% per la scolarizzazione dei minori, mentre nulla è stato destinato all’inclusione sociale dei rom».
Chi ci guadagna
Insomma: il Comune spende cifre ragguardevoli, e i rom continuano a vivere in condizioni di marginalità sociale e abitativa. Se due più due fa quattro, significa che quei soldi non vanno ai rom, e servono a riempire le tasche di qualcun altro.
Per la quasi totalità – ci spiega l’Associazione 21 Luglio – i fondi stanziati dal Comune sono stati assegnati a enti e cooperative tramite affidamento diretto e senza bando di gara. Al solo Consorzio Casa della Solidarietà, operante nei centri di via Salaria, via Amarilli, via di Torre Morena e nella ex Fiera di Roma, è andato il 49,2% delle risorse (poco meno di 4 milioni di euro). La Cooperativa Inopera, attiva nel Best House Rom, ha ricevuto più di 2,5 milioni di euro (il 32% del totale).
Consorzio Casa della Solidarietà e Cooperativa Inopera: teniamo bene a mente questi nomi, e cerchiamo di capire a chi corrispondono. Il primo figura sin dagli inizi nelle inchieste di Mafia Capitale (vedi qui e qui): si tratta di un insieme di attori imprenditoriali, di ispirazione cattolica, che secondo le inchieste della Procura (ancora tutte da accertare in sede di giudizio) avrebbero stipulato un patto di alleanza con le cooperative di Salvatore Buzzi.
Inopera si è vista invece affidare – anche in questo caso senza alcun bando di gara – la gestione del Best House Rom: le prime determine di affidamento sono firmate dal direttore del dipartimento Servizi sociali dell’era Alemanno, Angelo Scozzafava, indagato per Mafia capitale.
A noi, naturalmente, non interessano gli aspetti penali della vicenda, su cui la Magistratura farà luce a tempo debito. Quel che preme rilevare è che il fiume di denaro uscito dal Comune di Roma (cioè dai contribuenti) non è andato affatto ai rom e ai sinti, ma a soggetti imprenditoriali la cui vocazione “sociale” è – diciamo così – tutta da dimostrare.
Il Patto dell’Invisibilità
Ai rom un’accoglienza di serie B, magari indegna di un paese civile, ma pur sempre meglio degli sgomberi continui; agli imprenditori i soldi; ai politici i voti. Si potrebbe riassumere così il tacito “patto” che, secondo l’Associazione 21 Luglio, ha guidato le politiche sociali capitoline negli ultimi anni.
«In questo accordo non scritto», spiega Carlo Stasolla, «l’Amministrazione comunale garantirebbe un mero assistenzialismo all’interno delle strutture, senza alcun percorso di inclusione e di fuoriuscita; la famiglia rom, in cambio di un alloggio sotto-standard, assicurerebbe all’Amministrazione una sorta di invisibilità che si traduce anzitutto nella mancata rivendicazione dei propri diritti; l’ente gestore sarebbe lautamente pagato per garantire l’osservanza del “patto”».
La parola chiave, in questo caso, è «invisibilità»: i rom non devono rivendicare i propri diritti, non devono avere voce pubblica. Anzi, si deve continuare a dire che rubano, che non sono cittadini degni di questo nome, che perciò non meritano niente, vanno allontanati dalla città, cacciati, espulsi. In questo modo, si potranno gestire politiche di “emergenza”, che andranno ad arricchire i soliti noti a spese del contribuente.
Questo articolo è stato pubblicato sull’Corriere delle migrazioni il 29 maggio 2015

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