Rosi Braidotti e il femminismo post umano nel capitalismo avanzato: con o senza genere?

5 Giugno 2015 /

Condividi su

Femminismo postumano di Braidotti
Femminismo postumano di Braidotti
di Claudia Landolfi
Il Postumano di Braidotti (edito da Derive Approdi, 2014) è un libro di etica. Un libro che può risultare, di primo acchito, difficile. Per conquistare delle chiavi di accesso interpretative e orientarsi nella multiforme e intenzionalmente frastagliata proposta teorica, è utile rimandare al dibattito interdisciplinare che è stato prodotto negli ultimi decenni nell’ambito dei Gender Studies, Postcolonial Studies, Media Studies e Cultural Studies.
Inoltre, il testo presuppone anche una certa familiarità con le problematiche e le pratiche critiche introdotte dai movimenti femministi, ecologisti-ambientalisti, animalisti. Non mancano riferimenti importanti all’avanzamento nell’ambito delle biotecnologie, al capitalismo cognitivo, al post-strutturalismo, alla ‘svolta affettiva’, alla nozioni di biopotere, bios, zoe, solo per citarne alcuni. Poiché il quadro di riferimento teorico, com’è evidente, è troppo ampio per poterne dare conto in questa occasione, ci limiteremo ad analizzare alcune parole chiave del complesso lavoro di Braidotti. Innanzitutto ‘postumano’. Che cos’è il postumano?
Postumano è una traccia che registra una serie di fenomeni che si presentano nella contemporaneità e che sono difficilmente ascrivibili al modello tradizionale occidentale di anthropos (e ai suoi logoi). Quando pensiamo all’anthropos, infatti, si para innanzi alla nostra mente subito un’immagine, una rappresentazione che ha un potere evocativo universale, una capacità di impressione sul mondo. Un modello, appunto, che si presuppone essere la forma dell’ente umano al contempo già presente e inscritta nel nostro naturale esistere e ciò a cui tendere, in un movimento finalizzato a un continuo perfezionamento delle modalità di adesione e raggiungimento di questo modello.

Anthropos è stato pensato, quindi, come facies essenziale dell’umanità a partire dalla quale si dà la misura di tutte le cose. Braidotti, non a caso, infatti, analizza nel suo libro il modello dell’Uomo Vitruviano e le sue deformazioni nella contemporaneità. Funzionando da strumento di misurazione e valutazione del mondo, nonché da scopo dello sforzo umano nel costruire cultura, non poteva non essere caratterizzato secondo permanenza e non contraddizione.
Per fare un esempio di immediata comprensione e calare il discorso in un orizzonte comunemente esperito, pensiamo al Pater Familiae. Chi più anthropos di lui? Il Pater Familiae è una faccia storico-giuridica dell’anthropos il cui scopo è…realizzare l’Anthropos, cioè l’immagine di sé attraverso l’esercizio di potestas sugli altri membri della famiglia, giungendo al grado massimo di sviluppo lineare e unidirezionale, completezza e solidità a partire dal quale tutto si tiene. Dunque, per procedere con il ragionamento, di un Pater Familiae non si può predicare, al tempo stesso, la virilità e la transessualità perché ciò entrerebbe in contraddizione con l’assunto di unicità, coerenza e uniformità – in tutte le sue parti – del modello.
Inoltre, il Pater Familiae è uno e unico: che succede se immaginiamo una moltiplicazione di patres in un nucleo familiare? Da questo esempio discendono almeno due considerazioni: che quell’anthropos posto a fondamento e misura di tutte le cose, del mondo maturale così come di quello gnoseologico ed epistemologico (pensiamo ai saperi disciplinari/ti come antropo-logia, antropo-sofia, o alle tendenze culturali poste sotto il segno di un antropo-morfismo, antropo-centrismo etc.) è inequivocabilmente maschio, annientando e delegittimando tutto ciò che non gli è proprio. Maschio, con cui viene fatta coincidere, tout court, l’umanità intera. Da qui l’incipit del libro di Braidotti: “Non tutti possiamo sostenere, con un alto grado di sicurezza, che siamo sempre stati umani, o che non siamo null’altro all’infuori di questo.
Alcuni di noi non sono considerati completamente umani ora, figuriamoci nelle precedenti epoche della storia occidentale sociale, politica e scientifica.” Infatti non si dà, nella storia del pensiero occidentale, un corrispettivo termine femminile o neutro che abbia la stessa funzione fondante e teleologica (da telos, fine, scopo) riconosciuta ad anthropos all’interno di una struttura socio-politica e se pensiamo a ghiunè (donna in greco antico) il rimando più ovvio è al gineceo come assegnazione limitata di spazi e di possibilità ai non-anthropoi, e non certo a una disciplina epistemologica o a una dottrina giuridica o a un modello in base al quale plasmarsi.
Inoltre, dal caso del Pater Familiae deduciamo anche che la sfera della sessualità ha una forza dirompente che richiede la convergenza di molti sforzi pedagogici e istituzionali per essere contenuta onde evitare contraddizioni, con conseguente produzione di nevrosi nel maschile. Pensiamo anche alla valenza soggettivante della teoria dell’invidia del pene di Freud – che pone il pene come ineludibile e irraggiungibile elemento di confronto tra uomo e donna e che decreta l’incompletezza di quest’ultima- e alla necessità di istituire, al fine di conservare l’orizzonte sessuale duale che, guarda caso, nella cultura occidentale è anche gerarchico, teorie, abitudini, linguaggi orientati in tal senso.
La sessualità dell’anthropos moderno non può, in un regime di visibilità, oscillare e attraversare stadi metamorfici (ma non così nella Grecia antica, soprattutto in riferimento alle pratiche sessuali), ma solo scivolare verso zone d’ombra che si sottraggono allo sguardo della famiglia e della societas (Bachtin e la legge diurna e quella notturna, la tresca e la tregenda…). Dunque non si può predicare di un ente anthropos al tempo stesso (ma ciò sarebbe possibile invece in infra-tempi, in tempi multidimensionali, in tempi spazializzati, sincronici e molto altro ancora) virilità, femminilità, transessualità, volontà, vuoto di (nulla di) volontà, decisionalità, intenzionalità e inintenzionalità, pena la fine della famiglia intesa non come composizione di relazioni ma come nucleo – figura conchiusa e circolare – attorno cui costruire altri nuclei: la societas come separata dal mondo animale, lo stato-nazione, l’occidente (la superiorità di…). Anthropos è quindi un progetto politico ordinante che si impone su altre forme di vita e che si è configurato come cardine di una sovranità dispotica, di un apparato tipicamente occidentale, moderno, eurocentrico, colonialista, maschilista, nazionalista.
Possiamo allora dire che il postumano di Braidotti è innanzitutto post-antropocentrico, con tutto ciò che ne consegue sul piano del ripensamento dei saperi e delle pratiche di attraversamento istituzionale. Crediamo di poter dire che questo ‘post’ è da intendersi non come un ‘dopo’, perché modelli oppressivi sono ancora da scardinare, ma come ‘critica a’, così come ci insegna il ‘post-colonialismo’ a cui Braidotti fa, infatti, riferimento. Post-colonialismo come critica al colonialismo, quindi come pensiero attivo e non ‘cecità’ di fronte alle dinamiche colonialiste ed ‘entusiastica’ autoconvinzione che sia tutto finito.
Allo stesso modo crediamo di poter intendere il postumano come critica all’umano, il post-antropocentrismo come critica all’antropocentrismo, nella consapevolezza che la centralità dell’anthropos sia ancora presente e che un pensiero critico non possa operare né all’interno dei suoi logoi, né in senso dialettico. Questo chiarimento, per quanto forse banale e scontato, ci sembra opportuno e necessario perché molto spesso i detrattori di tutti i ‘post’ obiettano proprio il fatto che gli apparati di oppressione non siano finiti né superati. Tendiamo a pensare che, proprio abbracciando le teorie del multiverso e della multidimensionalità, si possano pensare a tempi e spazi differenti e compresenti.
La teoria di Braidotti, rispetto al femminismo, ci sembra non avere come obiettivo la costruzione di un modello speculare all’anthropos e che non si fermi allo stadio dialettico. Da qui il titolo in forma di domanda: quello di Braidotti è un femminismo senza genere? Braidotti in altri testi parla di ‘essenzialismo strategico’ e sostiene che il suo non è un ‘femminismo senza genere’. Eppure ci sembra che le cose stiano proprio così e cioè che dalla sua riflessione etica scaturisca un orizzonte di pensiero-prassi che accoglie certamente l’esperienza femminista, rimettendola però in gioco nel senso di un superamento sottrattivo nel/del genere, nella/della definizione (n-1 del divenire).
Questo gesto sembra, più che depotenziare il femminismo, allargarlo a tutti gli ambiti possibili quasi si trattasse di un metodo, di un esercizio critico che non necessita l’identificazione con un solo oggetto, ‘la donna’, ma che rilancia le conquiste del desiderio femminista sul piano epistemologico, tecnologico e politico come valida praticabilità etica in senso ecologico, connettivo. Sebbene ciò sembri significare ‘prendere totalmente sul serio’ tutto quanto è stato prodotto in ambito femminista, tuttavia questo femminismo senza genere è ancora tutto da discutere, comprendere, praticare, spiegare, soprattutto in contesti in cui le dinamiche di potere tra i sessi sono ben poco fluide e consentono poco spazio di manovra. Certamente ci sembra uno spunto interessante da non sottovalutare, sia nelle potenzialità (ammettere di essere cresciute, dare per scontato che ‘ogni donna pensa’, trovare punti di raccordo strategici e positivamente instabili per nuove conquiste) che nei rischi (come ad esempio il rischio di non riuscire a individuare i punti di oppressione di genere e risposte mirate di liberazione ed emancipazione).
Il postumano di Braidotti, inoltre, si distingue dal trans-umanesimo perché non ne condivide l’ottimistica fusione onto-tecnologica, e rifiuta l’assonanza con le forme di inumanità violente associate alla ‘perdita’ di umanità dell’era contemporanea. Il postumano, dicevamo, è infatti un libro di etica. Cosa vuol dire parlare di etica a proposito del postumano?
Si tratta di un’etica affermativa, che parte cioè da un gesto forte di rinuncia all’orizzonte trascendente che pone un modello ideale di umanità da raggiungere e che assume, come dato di partenza, una convinzione che viene dichiarata, però, solo a chiusura del libro: “Questo non è il Mondo nuovo di Huxley, vale a dire una versione disutopica del peggiore degli incubi modernisti. Non è neppure il delirio transumanista della trascendenza dai corpi umani attuali. Questa è la nuova situazione in cui siamo immersi: l’immanente hic et nunc del pianeta postumano; uno dei possibili mondi che ci siamo costruiti. E dal momento che esso è il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili.”
Il gesto teoretico di Braidotti consiste nell’assumere, come dato reale di partenza, non solo che questo mondo, il mondo cioè del capitalismo avanzato, del soggetto biomediato tecnologicamente, della ribalta di poli di gravità non occidentali, è di fatto un mondo postumano, ma anche che ‘questo è il migliore dei mondi postumani possibili’.
Cosa si intende per capitalismo avanzato? Il capitalismo avanzato, secondo quanto possiamo trarre da Mille Piani di Deleuze e Guattari è caratterizzato come una macchina che promuove la proliferazione di opzioni multiple (n+1) reificate e mercificate, in termini di beni di consumo, allo scopo di produrre profitto da tutto ciò che vive (già a partire dalle cellule). Il capitalismo avanzato ‘funziona’ attraverso il controllo della mobilità: la libertà è assicurata solo per quanto riguarda la circolazione dei beni e dei dati, ma non quella dei soggetti e le relazioni di potere sono sempre più sofisticate, capillari, limitanti.
L’orizzonte temporale è sottoposto a una continua sollecitazione schizofrenica: il futuro è fagocitato, non c’è mai tempo per niente e viviamo secondo agende insostenibili che non sono mai sincronizzate con il presente. L’ideologia del nuovo tecnologico, poi, produce numerosi effetti di patologizzazione, e procede in un senso non lineare nè dialettico ma secondo schemi dissonanti di de-valorizzazione dei soggetti, provocando esclusione, dominio e sfruttamento. Tale modo di procedere del capitalismo avanzato confonde i piani di analisi e di contro-azione, ed è sempre più difficile da tracciare, quindi anche la produzione del nuovo incontra maggiori ostacoli. Inoltre, il capitalismo avanzato ha una struttura biogenetica e tecnoscientifica che disloca continuamente le soglie definitorie dei viventi e che richiede un controllo continuo sulla vita.
Dato questo quadro di riferimento, allora, possiamo trarre che quei fenomeni che abbiamo detto non rientrare nella definizione di anthropos e nei suoi logoi, siano ormai dilaganti e irreversibili. Per Braidotti, sono il frutto di sforzi e immaginari, producono effetti sia su micro che su macro scala, di metamorfosi e nomadismo delle soggettività (a livello di sperimentazione sessuale, relazionale, politica), di ibridazioni tecnologiche (per quel che riguarda l’implementazione delle potenzialità corporee attraverso protesi e impianti che annullano le distanze tra organico e inorganico, tra umano macchina e animale) e di dismorfismi istituzionali (con risvolti sia creativi che necro-tanato-ossessivi). Negare questo e non starci pienamente dentro, lamentando malinconicamente da un lato, la crisi dell’uomo, dall’altro l’impossibilità di controproposte, invece di sperimentare una nuova potenza d’agire che sia sostenibile e limitata da una responsabilità relazionale, nell’ottica monista di Braidotti è un’occasione persa di vita etica.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 18 maggio 2015 riprendendolo dal sito Noidonne.org

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati