di Eva Catizone
Cosenza, 26 luglio 1988. Una tranquilla città di provincia del sud e un risveglio agghiacciante. Roberta Lanzino, 19 anni, studentessa all’Università della Calabria, viene uccisa. Sta andando al mare, a bordo del suo Sì blu, sulla vecchia strada di Falconara albanese; qualcuno probabilmente la segue e, dopo averla violentata, la uccide. Morirà soffocata dalle sue stesse spalline (forse usate per non farla urlare) e per dissanguamento da rescissione della carotide. Un brutale caso di femminicidio.
Cosenza, 6 maggio 2015. A distanza di 27 anni (e un pasticciaccio che nemmeno Gadda avrebbe potuto immaginare), dopo arresti, processi, pentiti dalle dichiarazioni ai limiti dell’affidabilità, prove mal conservate o compromesse, indagini approssimative, Franco Sansone, pastore, imputato di quell’omicidio, viene assolto con sentenza di primo grado e formula piena, per non aver commesso il fatto.
Dopo 27 anni vengono incredibilmente ritrovate, racchiuse in una scatola, tracce di sperma su reperti mai analizzati. Un campione biologico estratto dal terriccio rinvenuto sotto il collo di Roberta lo scagiona: il profilo genetico non è compatibile con il suo. E per gli uomini del Ris di Messina quel profilo poteva essere analizzato già all’epoca. Un combinato di omicidio e violenza, in cui l’uno potrebbe essere separato dall’altro, che vede coinvolte più persone.
L’analisi dei reperti racconta terribili verità: quello analizzato oggi è un mix tra sangue di Roberta e liquido seminale di almeno un individuo di sesso maschile. Viene accertata la presenza di altre due persone (gli atti parlano di duplice violenza), ma il quantitativo di campione biologico è sufficiente all’analisi solo in un caso (quello che scagiona Sansone), né è possibile dire se quel liquido fosse lì da prima.
Troppe domande irrisolte e un corso di giustizia da andamento lento. La violenza fu commessa lì o altrove? I medici legali opteranno per un luogo diverso da quello del ritrovamento: il posto è pieno di rovi e sul corpo non ci sono tracce di ecchimosi, di più la rescissione della carotide avrebbe procurato schizzi mai rinvenuti. E come è possibile che solo oggi spuntino prove significative? Qualcuno ha coperto? E se si, perché? La vulgata cittadina ha sempre disegnato l’identikit del colpevole dei piani alti, quelli ben schermati, della città o dei suoi dintorni. Magari si poteva modificare il capo d’imputazione, con l’aggiunta al Sansone di altri, ignoti. Di più, il cambio di passo rispetto all’udienza preliminare affidata ad Eugenio Facciolla, magistrato con competenze nella gestione dei pentiti, poi trasferito, forse non ha aiutato.
E ora si riparte da nessun colpevole e da un Dna d’Ignoto 1. Da una famiglia che reclama giustizia e da Roberta, sguardo sorridente e una vita davanti negata, che è come se morisse per la seconda volta.
Roberta io non l’ho conosciuta. L’ho conosciuta nello sguardo struggente di sua madre, Matilde, nel garbo di suo padre, Franco. Due genitori, esercizio esemplare di resistenza al dolore, che con dignità reclamano verità. L’ho conosciuta nell’impegno di tante donne, quelle dei centri antiviolenza o dei centri di salute mentale, impegnate per le altre che vivono in stato di difficoltà.
Già, perché i dati in Calabria parlano di un filo rosso in aumento. Solo due fatti, nell’ultimo mese, per capire il contesto. A Rosarno un uomo di 22 anni viene arrestato per aver ucciso, nel 2013, la madre e averne occultato il cadavere. Un caso di lupara bianca: Francesca Bellocco, dell’omonima cosca, viene uccisa per punizione. Per le regole arcaiche della ‘ndrangheta è colpevole d’aver intrattenuto una relazione extraconiugale con un boss (scomparso) d’altro clan, Domenico Cacciola, cugino del padre di Maria Concetta, che coraggiosamente sceglierà di collaborare, e per questo verrà suicidata. Morirà ingerendo acido. Nella universitaria Arcavacata invece un caso di “malamore”, un uxoricidio/suicidio: un carabiniere, affetto da qualche patologia ossessiva, uccide la moglie con la pistola d’ordinanza mentre la figlia è in casa, al piano superiore. Lei voleva lasciarlo.
Già, perché in questa regione matriarcale piena di contrasti, una regione dove quando nasci sei “bella ma femmina”, dove il genere (sovente accompagnato da retorica) è anche un problema culturale, biopolitico, può finanche accadere che un cronista, scrivendo sulle pagine di un giornale locale di quel marito omicida di Arcavacata, lo dipinga come “un padre e marito esemplare”.
Se gli esempi sono questi…
Questo articolo è stato pubblicato sul FattoQuotidiano.it il 12 maggio 2015