di Annamaria Rivera
È un tardo pomeriggio afoso quando passo dal Buddha Bar di Sala Baganza, sulla provinciale verso Parma. È qui, nel locale gestito da Luca Del Vasto, che sarebbe stata preparata la spedizione punitiva – sei contro uno – ai danni di Mohamed Habassi, cittadino tunisino poco più che trentenne. Ricordo che la notte fra il 9 e il 10 maggio lo sventurato è stato seviziato, mutilato e torturato a morte, in una modesta abitazione di Basilicagoiano, frazione del comune di Montechiarugolo.
A distinguersi per ferocia e crudeltà sarebbe stato lo stesso Del Vasto, ideatore del raid mortale, spalleggiato dal suo vecchio amico Alessio Alberici, fumettista di qualche fama locale: un raid compiuto, si dice, al fine di punire la vittima per il mancato pagamento della pigione dell’alloggio di proprietà della compagna di Del Vasto.
A.Z., di Sala Baganza, col quale ho parlato a lungo del delitto, mi aveva avvertita: “Qui è come se niente fosse accaduto: il bar è tuttora aperto e assai ben frequentato”. E tuttavia, quando ci arrivo, provo un certo turbamento nel vedere sulla terrazza cinque avventori dall’aria più che rilassata e, all’interno, un folto gruppo che fa il tifo per non so quale squadra di calcio, davanti a un grande schermo televisivo.
Dietro il banco c’è una giovane donna. Mi avvicino per comprare qualcosa e le rivolgo la parola. “Dunque è ancora aperto il famigerato Buddha Bar!”, esclamo, cercando di moderare il sarcasmo. Non lo coglie affatto e mi risponde stupita: “Famigerato? E perché?”. “Possibile che lei ignori – le domando – che il gestore di questo bar, forse anche titolare, è in carcere per omicidio aggravato?”. La barista non fa una piega: “Ah, si riferisce a quella storia…Non è Del Vasto il titolare, ma la sua compagna. E poi lui è una brava persona: lo dicono tutti”. Io obietto: “Le sembra che possa dirsi una brava persona uno che sevizia, tortura e uccide?”. Lei minimizza: “Chissà che gli è preso: forse un momento di pazzia. Ma era davvero una brava persona”. Poi taglia corto: “Comunque io ne so poco: sono stata assunta solo un mese fa”.
Questo dialogo paradossale riassume bene il clima descritto da A.Z. Secondo lui, buona parte degli abitanti di Sala Baganza è solidale o comunque indulgente verso Del Vasto, che pure “da molti mesi andava dicendo in giro che avrebbe ucciso Habassi”. Un tal clima di quasi omertà -che non è circoscritto a quel comune – è confermato da molti indizi. Anzitutto, come ho scritto in due articoli precedenti, dal silenzio quasi unanime dei media nazionali (con l’eccezione de La Stampa che il 12 maggio dedicò all’omicidio un pezzo di cronaca a firma di Franco Giubilei, ma senza più tornare sul caso). Anche il tenore che prevale nei commenti in rete è improntato perlopiù alla diffamazione della vittima, all’indulgenza verso i carnefici, alla difesa del buon nome della città e della sua provincia; nonché del sacrosanto diritto alla proprietà privata.
E a proposito di provincia: ha ben ragione don Vinicio Albanesi a sostenere -come ha fatto dopo l’omicidio razzista di Emmanuel Chidi Namdi – che la provincia è infida e ipocrita poiché spesso tende a banalizzare, minimizzare, coprire anche gli ambienti più corrotti, fascisti o razzisti. E qualche analogia c’è tra Fermo e la provincia di Parma: entrambe alquanto floride, sicché né il frusto teorema della “guerra tra poveri”, né il deterministico “è colpa della crisi economica” valgono a spiegare la violenza d’ispirazione razzista (che il movente razzista sia palese o non). In particolare, il comune di Sala Baganza -sede di numerose aziende metalmeccaniche e agro-alimentari, sebbene conti poco più di 5.500 abitanti – ha un reddito medio secondo solo a quello di Parma; e il comune di Montechiarugolo, contesto dell’orrendo massacro, nella provincia figura al quarto posto per ricchezza.
Delle volte, in provincia, è proprio la rete di relazioni di prossimità (ci si conosce tutti, ci si chiama per nome, ci si saluta per strada) a far sì che sia tollerato e coperto quanto di torbido si annida nelle pieghe della società locale. Ricordo che Sala Baganza è stata coinvolta, insieme ad altri comuni emiliani, nella maxi-inchiesta giudiziaria della Procura bolognese sull’infiltrazione della ‘ndrangheta. Per contro, nella prima fase del procedimento, è stato il primo Comune del parmense a costituirsi parte civile, ricevendo un risarcimento di 150mila euro.
Anche intorno al Buddha Bar e al suo gestore – descritto dai miei testimoni come aggressivo, violento, un po’ perverso – si addensa qualcosa di ben torbido: un mélange d’interessi materiali, nottate nel locale a base di cocaina e lap dance, saltuario utilizzo di prostitute, occhiuta sorveglianza mediante telecamere disseminate e usate, alla bisogna, per intimidire e ricattare. Ma v’è anche l’affiliazione a una malintesa santeria, con relativi sacrifici rituali di animali.
Che qualche pratica pregressa su corpi animali possa contribuire a spiegare la meticolosità e la ferocia estrema delle torture inflitte al povero Habassi è cosa che avevo già intuito: la reificazione, fino al supplizio, dei corpi vivi e vulnerabili dei non umani può essere esercizio che rende concepibile e realizzabile la riduzione a cosa degli umani, spinta fino allo scempio dei loro stessi corpi.
A.Z. me lo conferma, e con molti dettagli. A iniziare l’entourage di Del Vasto alla “santeria” sarebbe stato un certo Rafael, santero cubano. Secondo A.Z., la pseudo-santeria era usata anche come strumento di pressione e ricatto verso le dipendenti del Buddha Bar, affinché vi si affiliassero: cosa confermata da alcune ex cameriere. Una di loro mi racconta d’essere stata costretta, con altre due ragazze, ad assistere, a casa di Del Vasto, allo sgozzamento di quattro galline e tre piccioni: doveva essere il rituale della loro iniziazione, cui però le tre si sottrassero indignate e sconvolte, lei dopo aver vomitato per il ribrezzo. Prima del sacrificio, Del Vasto le aveva avvertite che quello dei volatili valeva solo per riti iniziatici. Una volta iniziate, avrebbero partecipato all’immolazione di ben altri animali.
A rendere più ambiguo il contesto sta un “dettaglio”. S’incarna nel rapper Nicola Comparato, in arte CumbaRat, autore ed esecutore di alcuni pezzi che pubblicizzano il Buddha Bar (commissionati da Del Vasto, si può immaginare). Ma anche del rap che è colonna musicale di “Parma Non Ha Paura”, comitato per la sicurezza fondato alcuni mesi fa da Luigi Alfieri, ex firma del quotidiano La Gazzetta di Parma. Questo pezzo, dal titolo esplicito di Parma non ha paura, basterebbe da solo a illustrare quali siano i principali bersagli politici del comitato. Il tema dominante del rap, infatti, è costituito dagli “immigrati”: quelli “pieni di agevolazioni/che rubano nelle abitazioni”, recitano due versi sgangherati.
Com’è nel suo stile, Alfieri (che di recente ha manifestato l’intenzione di candidarsi a sindaco di Parma) definisce eufemisticamente “antirazzismo realista” quello di CumbaRat. Ma sarebbe sufficiente ascoltare questo rap insieme con il letteralmente osceno Odio tutte le donne per cogliere a qual campione di sessismo estremo, xenofobia e trivialità si sia affidato Alfieri. Il quale pure cerca di coprire il suo comitato con una patina di moderazione: per esempio, invece che dure ronde di tipo leghista organizza “passeggiate del sorriso” nei luoghi del “degrado” e dell'”insicurezza”.
L’operazione politica di détournement, compiuta da Luigi Alfieri rispetto al delitto Habassi, mostra bene quale sia lo spirito di “Parma Non Ha Paura”. Subito dopo l’assassinio e le polemiche, non del tutto infondate, su una certa inerzia dei vicini durante il lunghissimo supplizio, scandito dalle urla laceranti della vittima, egli si schiera nettamente dalla loro parte, dopo aver svolto “un’inchiesta giornalistica”.
Certo, è del tutto verosimile che – com’egli riferisce – i carabinieri, una volta allertati dalla telefonata di qualcuno, si siano rimpallati la responsabilità con la polizia e viceversa, così che il loro intervento sarebbe risultato, infine, maldestro e tardivo. A tal punto -si potrebbe congetturare – da risultare fatale per il povero Mohamed, ritrovato morto in una pozza di sangue, dissanguato lentamente da emorragie interne ed esterne. “Si poteva chiedere a qualcuno di scendere e intervenire? Si poteva fare di più che telefonare alle forze dell’ordine?”, si chiede retoricamente il Nostro. Sì, si poteva: non è da escludere che bussare a quella porta, in molti e tutt’insieme, avrebbe interrotto il supplizio.
Ma per il Nostro i vicini di Habassi sono “cittadini coraggiosi”. Ed è scandaloso, egli scrive, che dopo il delitto nessuna autorità sia andata “a confortare” gli abitanti del quartiere, “scioccati dal male e dalla cattiveria umana, dalle urla, dal rumore di ossa rotte e poi messi alla berlina”. Oltre tutto, i meschini “vorrebbero vendere gli appartamenti, ma nessuno li comprerà“: una vera tragedia, di fronte alla quale sembra impallidire il dramma di Mohamed e del suo bambino, rimasto doppiamente orfano.
Il groviglio d’interessi e lerciume morale, in un contesto ove ha un certo peso la criminalità organizzata, fa apparire ancor più osceno il contrasto, che emerge dalle cronache locali, fra la descrizione dei due principali carnefici come persone insospettabili e perbene, e la rappresentazione della vittima come persona molesta e deviante, nel cui passato andrebbe ricercato il movente. E non è inconsistente il rischio che, nel corso del processo, Del Vasto e il suo sodale riescano ad attribuire la responsabilità dell’esecuzione materiale del delitto ai quattro operai romeni reclutati per il raid. Per fortuna, a Parma e provincia v’è anche un’estesa società civile, consapevole, attiva, impegnata, anche contro discriminazione e razzismo. Perciò c’è da sperare che qualche associazione per la tutela dei diritti dei migranti voglia costituirsi parte civile, così da contribuire a esplorare il verminaio locale, nel quale forse si annida il vero movente del calvario inflitto a Mohamed Habassi.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 27 luglio 2016