Do you remember revolution (senza punto interrogativo) / 2

24 Aprile 2015 /

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Rabbia, ribellione, rivoluzione
Rabbia, ribellione, rivoluzione
Do you remember revolution (senza punto interrogativo) / 1
di Bruno Giorgini
(Prima parte). Personalmente sono invitato a partecipare alla prima tappa come “rivoluzionario” del ’68, mentre Cesare Alvazzi del Frate sta lì in quanto (ex) partigiano, dove le parentesi a ex sono dovute al fatto che Cesare si è sentito partigiano fino a oggi sul filo dei novantanni (nacque nel 1926), molto ben portati. Comincio io raccontando una storia che riguarda mio padre, comunista.

Al funerale di Roberto, mio padre, si presenta un anziano signore, Vladimiro che scusandosi per il disturbo, dice “Con Roberto eravamo amici praticamente d’infanzia, non so se ti ha mai raccontato come diventammo comunisti.” “No, mai fatta parola. Non sapevo neppure che lei Vladimiro esistesse ” “Diventammo comunisti insieme. Poi fummo amici per la pelle fino all’Ungheria nel ’56. Io non potevo sopportare che si sparasse contro gli operai insorti, Roberto diceva che senza partito e senza URSS non c’era rivoluzione e nemmeno niente. Così abbiamo smesso di vederci, finanche di salutarci.
Ci siamo ritrovati da vecchi, e facevamo delle passeggiate lunghe e dei giri in tram, sai che a Milano esiste anche un circolo dei romagnoli dove andavamo, così giusto per fare quattro chiacchiere in dialetto con degli altri. Il tuo babbo come al solito finiva per questionare di politica, che ne capiva. Ma adesso riprendo il filo. Avevamo 14-15 anni a Cesena – doveva essere il ’36, forse il ‘37 – quando smanettando (usò proprio “smanettare” come un ragazzo di oggi) con una vecchia radio a galena ci capitò di sentire Radio Mosca in italiano. Un tale Ercoli (Togliatti ndr) parlava tra l’altro di un certo Marx che pare scrivesse cose straordinarie per il proletariato.

Urbano, Urbanì, il babbo di Roberto, era minatore su alla zolfatara vicino a Tessello, socialista i fascisti gli avevano resa invalida una mano. Ascolta una volta ascolta due venne che il tuo babbo disse, ma perché non andiamo in biblioteca a prenderlo un libro di questo Marx, poi lo leggiamo insieme. Detto fatto il giorno dopo eravamo alla biblioteca comunale, dove mio zio lavorava, chiedendogli un libro di Marx. Mio zio ci disse di parlare piano, quindi ci condusse fuori: ma siete matti… Marx è proibito, non si può leggere, lo teniamo in una bacheca speciale con altri come lui. E il tuo babbo svelto, perché quando voleva era svelto, dio se era svelto, svelto e matto, non potremmo almeno vederlo da fuori, tanto per sapere.
Mio zio era così stranito da una richiesta talmente fuor del comune fatta da due ragazzini, io mi ero subito messo con Roberto a chiedere, anche se non capivo perché fosse così importante vedere questa benedetta bacheca, che scossando la testa, sai come succede agli asini quando portano un peso che non conoscono, ci condusse dove stavano degli scaffali chiusi con lucchetti, indicandoci con un dito alcuni ripiani pieni di volumi. Ma quanto ha scritto questo Marx ci venne da dire, e lo zio eh sì pare che abbia fondato la Russia, là hanno tutte le sue opere in lingua originale, il russo con quell’alfabeto che non è come il nostro, cambiano proprio le lettere non solo le parole.
Quando fummo fuori Roberto disse stanotte torniamo apriamo quella finestra che dà sul corridoio, scassiniamo la bacheca e ci prendiamo il nostro Marx. Proprio così disse: il nostro Marx! Era già il suo ancor prima d’averne sfogliato una pagina, non so mica se era il mio, bene non l’ho mai saputo. Tutto andò liscio, non quella notte ma aspettammo una settimana, e uscimmo dalla finestra col nostro libro, “L’Anti – Duhring”, in saccoccia, rimanendo male una volta fuori perché l’autore era Engels. Nella fretta e nel buio avevamo preso il primo volume che ci era capitato sottomano, credendo che tutti i libri della bacheca fossero di Marx, come aveva detto mio zio.
Però doveva essere comunista anche Engels se stava sotto chiave, e decidemmo di leggerlo comunque. Per farlo andavamo la sera sotto un lampione lungo il viale vicino alla stazione, adesso che ci sono le puttane è piuttosto trafficato, ma allora erano aperti i casini, e per di lì non passava un cane. Così diventammo comunisti proponendoci di attaccare i fascisti. Allora pensa te, Roberto ebbe un’altra pensata delle sue. Trovammo delle boccette di profumo da donna, che sono di vetro grosso e possono fare delle belle schegge, le riempimmo di polvere nera, innestammo una miccia che accendevamo dalla cicca della sigaretta, una in due, e le tiravamo aspettando il botto.
La chiamavamo la nostra bomba a mano comunista, ma prima che trovassimo il coraggio di provarla contro un fascista, Roberto chissà come, non me lo ha mai detto, trovò uno del Partito clandestino e da bambini diventammo uomini, rivoluzionari comunisti”. Quindi stringedomi di nuovo la mano e nessun abbraccio ma evidente commozione, come era venuto se ne andò, lasciandomi lì a bocca aperta, a meditare su questa discrezione paterna, nonché é sulla forza di questa amicizia “rivoluzionaria” durata molti decenni.

Il mio racconto pur non entrandoci niente col ’68, mi sembrava avesse un qualche senso rispetto al modo e al tipo di comunicazione con cui si diventava allora rivoluzionari – modi oggi del tutto impossibili. Dopo Cesare Alvazzi del Frate ha preso la parola con storie una più affascinante dell’altra, tenendo l’attenzione di tutti inchiodata. Prima quando faceva parte del partigianato passivo o anche resistenza civile, raccolta di armi, abiti civili, rifugi per i renitenti la leva, contatti tra gruppi armati e quant’altro servisse per la guerriglia in montagna; poi come aveva rimesso in sesto casse di bombe a mano tedesche disinnescate, inventandosi un innesco artigianale che aveva provato direttamente rimettendoci alcune dita; quindi l’amicizia con Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra e altri antifascisti di lungo corso piemomntesi, fino al giorno in cui decide di arruolarsi nel partigianato attivo.
Suo padre, alto magistrato, accompagnandolo lungo la strada gli dice : se incontri tuo cugino (che era fascista arruolato nellaRepubblica di Salò) sai cosa devi fare, con un gesto inequivocabile. Scivola invece sul suo arresto da parte dei tedeschi e su come abbia fatto a cavarsela. Alvazzi operava in Valsusa, collaborando anche col maquis francese – è nato a Oulx dove ancora vive – va in giro a raccontare per le valli e in città, soprattutto nelle scuole e tra i giovani. Se la resistenza sia stata rivoluzione, ebbene sì, non la rivoluzione sociale ma quella che ha abbattuto una dittatura per costruire una democrazia. Con qualche delusione dopo la Liberazione che Cesare non nasconde.
Fioccano le domande fino a quella fatidica, cosa è oggi la rivoluzione; e il tentativo di risposta su cui qui non entriamo. Per parlare del ’68 comunque non c’è tempo, soltanto anche qui tornano il discorso e le domande sulle donne, la loro libertà, il loro pensiero, la loro visione come condizioni necessarie di qualunque convivenza civile, tanto più di qualunque rivoluzione sia oggi concepibile. Viene l’ora d’andarsene e ho un unico rimpianto. Entrando a inizio pomeriggio avevo detto per scherzo che portavo con me la borsa del rivoluzionario di professione, borsa che avrei aperto per mostrarne il contenuto più tardi.
Fuor di scherzo qualcosa dentro che avrei voluto citare in realtà c’era, una copia delle “Ceneri di Gramsci”, lo splendido poema di Pasolini che meglio di qualunque altro testo io abbia letto, narra la mancata rivoluzione italiana proiettandosi nel futuro fino alla prefigurazione dell’attuale magma di reazione e conservazione, nonché corruttela morale e egoismi fuor di controllo. Per finire quel che ho provato a raccontare rappresenta, al di là della sequenza di coincidenze, un punto di vista che sta sui margini, che però spesso, come in un libro, sono gli unici spazi liberi dove tracciare nuove scritture.
Potrebbe accadere come per il teorema di Fermat, uno dei più importanti nella teoria dei numeri, che egli enunciò in margine a un libro aggiungendo le seguenti parole: dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina. Dopo ci vollero secoli per dimostrarlo, come forse sarà per la rivoluzione.
PS. Ho preso il titolo – con un punto interrogativo che ho tolto – da un vecchio articolo firmato da 11 imputati nel processo 7 aprile, comparso su il manifesto nel 1983.

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