di Loris Campetti
Se c’è un’anomalia nella proposta della Fiom di costruire una coalizione sociale, finalizzata a unire le figure sociali e le persone colpite dalle ricette neoliberiste e contrapposte le une alle altre, non sta nel presunto sconfinamento di un sindacato di categoria nella “politica”. È più di un secolo che la Fiom fa politica rifiutandosi di farsi chiudere in una gabbia corporativa, è dalla sua nascita che, rappresentando i lavoratori, il sindacato dei metalmeccanici non ha mai nascosto l’obiettivo di cambiare lo stato di cose presente, incentrato sia pure in forme diverse oggi rispetto a un secolo fa sulle diseguaglianze e le ingiustizie, attraverso lo strumento dello sfruttamento. Cioè del capitalismo.
Semmai, oggi la necessità di costruire un progetto generale capace di riunificare quel che la crisi e le strategie politiche dominanti cercano di dividere e contrapporre è diventata più cogente che in passato. Perché il liberismo ha cambiato il mondo del lavoro e delle relazioni sociali e umane, perché i lavoratori tutelati dalle legislazioni prodotte dalle grandi lotte degli anni Settanta sono ormai una minoranza, pressati da eserciti di precari e appaltati, licenziati e esodati, espulsi e rifiutati.
Fabbriche, uffici, servizi sono sregolati in una giungla talvolta contrattuale, prodotta sulla base di un principio, un’ideologia postnovecentesca: ogni azienda è una nave da guerra, al cui interno hanno tutti lo stesso obiettivo e gli stessi interessi, rematori, ufficiali, comandante e armatore, difendersi dal nemico che è esterno essendo tramontata l’epopea della lotta di classe, e conquistare nuovi mari, isole e approdi per il benessere generale degli abitanti della barca comune.
Chi è il nemico? L’altra nave da guerra che si pone gli stessi obiettivi di difesa e conquista, dunque i nemici dei rematori contro cui puntare il fucile sono i rematori dell’altra barca e non più i “superiori”, ufficiali e armatori che guadagnano fino aduemila volte più di loro. Da qui la domanda: chi rappresenta il sindacato, e dunque quale rappresentanza sociale è oggi all’altezza delle nuove sfide? Domanda obbligatoria nel momento in cui è venuta meno qualsivoglia forma di rappresentanza politica, dentro un processo di evanescenza della democrazia, cancellazione dei diritti, accentramento delle decisioni (così come dei redditi) e populismo, con il conseguente scatenamento dell’individualismo proprietario.
Il tutto governato da superpoteri extranazionali che dominano le scelte politiche, sia che a effettuarle siano partiti e coalizioni di destra che di (presunta) sinistra. Se un sindacato non può sostituirsi a un partito per ricostruire una forma di rappresentanza politica – operazione necessaria come il pane ma della quale non si vedono gli appori – può invece – anzi deve, se non vuole estinguersi dopo aver rosicchiato l’ultimo osso di welfare gettato dalla magnanimità del potere – lavorare alla costruzione di una rappresentanza sociale insieme a chi è vittima dell’egemonia culturale del capitalismo dal volto liberista e al tempo stesso vuol essere protagonista del cambiamento.
Dunque, se l’anomalia non è la Fiom, dove sta l’anomalia? Nel fatto che dovrebbe essere in prima persona la Cgil il protagonista della battaglia per la costruzione della “Coalizione sociale” con tutta la frantumata costellazione del mondo del lavoro e i suoi mille livelli di precarietà; con chi il lavoro non ha più o non riesce ad averlo; con chi è povero anche se lavora o è pensionato; con gli studenti a cui vengono rapiti il futuro, il sapere, la partecipazione; con gli intellettuali che non si vogliono accodare al pensiero unico; con chi pratica la solidarietà con le vittime della fame, delle guerre, della criminalità, con chi tutela la memoria della Resistenza.
Pensate come sarebbe più semplice il progetto di Landini se la Cgil, consapevole della necessità di rifondarsi, aprisse le porte e le finestre delle Camere del lavoro a chi cerca e offre aiuto e solidarietà. La Camera del lavoro come casa comune, un salto in avanti e insieme un ritorno all’antico, una nuova Società di mutuo soccorso.
Altro che un partito, l’idea di coalizione sociale è ben più ambiziosa e ha molto a che fare con una concezione moderna della rappresentanza sindacale. L’altra concezione di sindacato è quella consolidata e calcificata negli ultimi decenni, quella che mette al centro i servizi appaltati dallo stato che si scrolla di dosso il gravame del welfare, il sindacato che compila moduli e dichiarazioni dei redditi e sopporta con qualche fastidio (o non sopporta proprio) che nella stanza accanto a quelle dove le segretarie compilano moduli si riuniscano i sanguigni delegati di una fabbrica metalmeccanica per stabilire le forme di lotta contro i licenziamenti minacciati dal padrone. Non solo eticamente e sindacalmente questo modello sindacale è perdente, ma anche fattualmente: la nuova cultura politica non prevede più l’esistenza dei corpi intermedi, insieme ai privilegi cancella i diritti sindacali, manda in soffitta ogni forma di complicità e anche di cogestione. Per la Cgil sarebbe obbligatorio cambiare, per non deperire.
Sogni di una notte di primavera? Chissà, ci vorrà probabilmente del tempo – magari tre anni – prima che qualcosa cambi in corso d’Italia, ma forse qualcosa succederà. Intanto c’è una sola cosa da fare: stringerci intorno alla Fiom.