intervista a Íñigo Errejón di Samuele Mazzolini (@mazzuele)
Dall’influenza delle esperienze latinoamericane a Laclau e Gramsci, dall’indipendentismo alla rottura dei tabù novecenteschi, dall’idea di basso contro alto all’obiettivo di creare una nuova maggioranza sociale nel Paese. A parlare Íñigo Errejón, segretario politico di Podemos, il partito ispanico che impaurisce le elite oligarchiche: “Es la hora del pueblo”.
“Puntiamo al governo: vogliamo costruire una nuova maggioranza e per questo siamo disposti ad essere audaci, a volte persino polemici. Se battiamo la campagna della paura, vinciamo le elezioni e diamo inizio al cambiamento politico in Spagna e auspicabilmente nel resto dell’Europa”. Íñigo Errejón, 31 anni, è il segretario politico di Podemos, il partito ispanico erede del movimento degli Indignados. Dopo il leader Pablo Iglesias è tra i volti più conosciuti ed autorevoli, è stato il responsabile della campagna elettorale alle scorse Europee – dove a sorpresa hanno preso l’8 per cento – e consulente di Evo Morales in Bolivia: “Senza le esperienze latinoamericane non si può capire Podemos”.
Esiste un legame che unisce gran parte della Direzione di Podemos con le esperienze politiche populiste latinoamericane. Quanta America Latina c’è in voi?
Non è l’unico ingrediente, ma senza America Latina Podemos non sarebbe esistito così come lo conosciamo. In Europa, negli ultimi anni, non ci sono state esperienze che permettessero ai militanti con le nostre posizioni di formarsi politicamente in grande, perché occupavamo fondalmentalmente gli spazi della marginalità, lontani dalle discussioni che hanno a che fare con il potere, lo Stato, la trasformazione e l’egemonia. Le esperienze politiche latinoamericane [vissute in qualità di consulenti presso i governi di Bolivia, Venezuela ed Ecuador, ndr] sono state per alcuni di noi dei corsi di apprendimento politico accelerato, che ci hanno permesso di testare alcune delle categorie alle quali appartenevamo.
Molti di noi in Podemos provenivano da una tradizione movimentista e autonoma. Personalmente ritengo insoddisfacenti queste categorie: non mi aiutano a pensare la questione dell’identificazione politica nè ciò che sta accadendo allo Stato. Quel che avviene in America Latina non ha una trasposizione diretta in Spagna. Tuttavia, c’è una logica che rivendica l’autonomia del politico: si tratta di una logica politica universale, che si esprime poi in ogni società attraverso materiali, attori e condizioni molto diverse. A partire dall’America Latina abbiamo cominciato a discutere alcuni grandi concetti senza che ciò fosse un esercizio di masturbazione retorica, bensì un esercizio applicato a processi di cambiamento reali. Da qui abbiamo estratto varie grandi lezioni. Tra queste spicca la costruzione nazional-popolare: si tratta di una forma di aggregazione di un “noi” intorno a un’identificazione nazionale eretta contro le élites.
Quindi sposate il pensiero del teorico postmarxista argentino Ernesto Laclau?
Queste riflessioni sono stati influenzate, soprattutto nel mio caso, dalla “School of discourse analysis” di Essex, fondata da Ernesto Laclau, presso cui ho lavorato sin da quando ero un ricercatore. A grandi linee, è la scuola teorica a cui appartengo e che a mio avviso mette a disposizione il miglior arsenale di idee per pensare i fenomeni dell’egemonia. Se non ci fossimo dotati dei concetti di una teoria postmarxista che radicalizza Gramsci, non saremmo stati in grado di leggere la situazione. Penso che l’approccio dell’egemonia ci abbia permesso di intravedere un’identificazione politica diversa lì dove invece sembrava ci fosse solo un’impasse.
Queste concezioni sono molte lontane dalla volontà del 15M di non diventare un partito politico, di non portare cioè quella resistenza su un piano egemonico. Tuttavia, si parla di voi come del partito erede dell’esperienza degli “indignados”. Come si spiega questa apparente contraddizione?
Podemos non sarebbe esistito senza il 15M, ma non è il partito o l’autorappresentanza di quelle acampadas. Il movimento degli “indignados” è la condizione di possibilità di Podemos e non mi riferisco alla gente che è uscita a protestare, alle assemblee, all’organizzazione in sé. Piuttosto, il clima culturale e la modificazione del senso comune ispirati dal 15M sono stati fondamentali per immaginare un intervento contro-egemonico. È stata quindi la nuova agenda politica a permettere che le élites in Spagna cominciassero a giocare sulla difensiva, sebbene ancora al governo. I settori movimentisti dicevano che la prospettiva elettorale equivaleva a costruire la casa partendo dal tetto. A volte, tuttavia, i momenti politici ed elettorali generano identificazione politica. Per questo fin dall’inizio abbiamo detto che non si trattava di unire la sinistra ma di costruire l’unità popolare. Gran parte del malcontento della cittadinanza spagnola si esprime al di fuori delle organizzazioni, delle parole e dei miti della sinistra. Per articolare quel malcontento c’era da fare il contrario di quello che suggerivano i settori attivisti. Era un’ipotesi molto rischiosa: avrebbe potuto causare la nostra morte politica se le cose fossero andate storte. Ma alla fine sembra che ci siano state le condizioni e abbiamo avuto anche un po’ di fortuna, che è sempre fondamentale.
Avete trasformato quell’immenso desiderio di cambiamento in strategia politica…
Pochi mesi dopo il 15M, il Centro di Ricerche Sociologiche indagò il grado di simpatia verso gli “indignados”: l’approvazione superava il 72%. Poco tempo dopo tuttavia, il Partito Popolare (PP) ottenne alle elezioni comunali più potere di quanto non ne avesse mai ottenuto dal ’78. È vero che buona parte dell’elettorato di centro-sinistra o di quello interpellato dalle piazze non era andato a votare. Ma è anche vero che tra molti di coloro che votarono per il PP c’era una simpatia trasversale per molte delle istanze del 15M. Si stava delineando la possibilità di un allineamento alternativo alle identificazioni politiche in Spagna, con un collasso della frontiera sinistra/destra e l’apparizione di una frontiera diversa: alto e basso. Quella frontiera riordina le posizioni dello scacchiere politico, mettendo simbolicamente insieme i due maggiori partiti. C’è qualche differenza tra di loro? Ce ne sono, ma sono di più quelle che intercorrono tra il sistema politico e la cittadinanza.
La vittoria di Alexis Tsipras segna una discontinuità con le politiche di austerità della Troika e dà speranza a coloro che pensano ad un’Europa diversa. Podemos trae beneficio dalla vittoria di Tsipras? E come?
Podemos si rallegra molto della vittoria di Tsipras. Si è voluto imporre alla Spagna una terapia greca, che è una terapia fallimentare secondo la quale tagliando di più i nostri paesi sarebbero stati in migliori condizioni per crescere e pagare i propri debiti. Tuttavia, il risultato è stato che i nostri paesi sono più poveri, più diseguali e i debiti non smettono di aumentare. Il percorso che si è cercato di imporre – nonostante la situazione in Grecia e Spagna non sia la stessa – conduce allo stesso punto: rendere il debito sempre più insostenibile, anche perchè l’obiettivo non è quello di ripagarlo, bensì quello di soddisfare gli interessi dei creditori.
Ci dicevano che tutto ciò era un’esagerazione, che la Spagna non era la Grecia. Dal momento in cui Syriza ha vinto invece, la Spagna viene considerata potenzialmente alla stregua della Grecia dai media spagnoli. Le elezioni in Grecia sono state vissute quasi come il primo passo delle nostre elezioni generali. C’è stato persino un giornale che ha titolato “La Grecia si Podemizza”. C’era un tentativo di descrivere ciò che stava accadendo in chiave spagnola. Siamo consapevoli che se il governo popolare greco è in grado di avere successo, Tsipras inizierà a ricevere ammiccamenti. Già ne ha ricevuti alcuni: in Spagna per esempio da parte del Partito Socialista (PSOE), il quale fa finta di non sapere chi sia il Pasok e dice che Syriza in fin dei conti non è che una coalizione di sinistra orientata a politiche responsabili, a differenza dei populisti di Podemos. Tuttavia, se le forze oligarchiche e finanziarie europee saranno in grado di sconfiggere il governo popolare greco, ciò certamente verrà rappresentato come il fallimento di Podemos. Gli stessi compagni di Syriza ci dicevano di essere contenti della nostra esistenza, ma ci hanno anche confidato che gli complica un po’ le cose: i poteri con cui negoziano sarebbero più accomodanti se non si intravedesse la possibilità di un governo pronto a invertire le politiche di austerità anche in Spagna. Penso che i greci abbiano aperto un cammino che sarà fondamentale per il recupero dell’idea di Europa e noi stiamo cercando di continuarlo in Spagna.
Attualmente Podemos è dato tra la prima e la seconda posizione dagli ultimi sondaggi. Per come è strutturato il sistema elettorale spagnolo tuttavia, anche vincendo in termini assoluti, probabilmente sareste appena la seconda o la terza forza in Parlamento. Cosa pensate di fare di fronte a questa possibilità?
I risultati dei sondaggi vanno sfumati, a mio avviso rimane ancora molto voto occulto per il PP. L’altro giorno un politico del PP diceva lontano dai microfoni: “Le elezioni si decideranno a seconda che gli spagnoli provino più schifo per il PP o abbiano più paura di Podemos”. L’insieme dei poteri in Spagna sta lavorando senza troppi scrupoli democratici per generare una situazione di polarizzazione e di paura affinché Podemos giunga alle elezioni in condizioni durissime. Penso che dovremmo essere molto cauti con i sondaggi in questo senso. Non stiamo fronteggiando un governo o una serie di partiti: abbiamo a che fare con un intero regime che, pur in decomposizione, può ancora utilizzare istituzioni pubbliche, mezzi privati e mezzi semi-legali contro il nemico politico. Questa sarà la battaglia, la battaglia non sarà combattuta sulla base della bontà degli argomenti. Inoltre, il tipo di composizione geografica e sociologica del voto di Podemos, con un maggior peso nei settori urbani, può creare la situazione a cui alludi: pur vincendo in termini di voti, potrebbe darsi il caso che non si vinca un sufficiente numero di scranni parlamentari e che la differenza sia persino molto pronunciata. Che cosa accadrebbe allora? Il nostro obiettivo è quello di vincere le elezioni e costruire un governo al servizio dei cittadini spagnoli. Ma a livello strategico è cruciale essere capaci di provocare un cortocircuito nella dialettica del sistema partitico nato nel ’78, rendendo impensabile un ritorno al passato. In questo senso è fondamentale capire se il PSOE e il PP abbiano intenzione di allearsi. Dicono di non volerlo fare, ma poi firmano patti di Stato insieme e ci attaccano con gli stessi argomenti. Il nostro timore è che il PSOE e il PP possano avere in serbo un governo di “responsabilità nazionale”. Se ciò accadesse sarebbe una cattiva notizia per gli spagnoli, ma crediamo che confermerebbe l’esistenza di due alternative: il governo dell’austerità e dei tagli, o la possibilità di un cambiamento politico che rappresentiamo noi di Podemos.
Gestite un discorso complesso rispetto al tema delle nazionalità in Spagna. Pablo Iglesias a Valladolid (epicentro del nazionalismo spagnolo) difende strenuamente l’idea di Spagna, mentre a Barcellona sostiene il referendum sull’autodeterminazione. Come pensate di conciliare in termini pratici questi elementi?
Siamo una forza politica spagnola. Però ci rendiamo conto che la Spagna è un Paese in cui convivono popoli con diverse identità e progetti nazionali. In un Paese con tali caratteristiche culturali e politiche, gli unici collanti per tenere insieme le parti devono essere la seduzione e il consenso, e ciò significa tendere la mano a tutti. Certo, è difficile costruire un racconto nazional-popolare quando in realtà devi creare un racconto plurinazional-popolare. Non nell’accezione boliviana, per cui un’identità può fungere da ombrello per diverse identificazioni nazionali indigene: qui stiamo parlando di un caso in cui queste identificazioni possono entrare in competizione. Abbiamo comunque optato per un progetto plurinazionale spagnolo. È una contraddizione in termini? Noi crediamo di no: pensiamo di poter creare accordo su un progetto di sovranità, di recupero dei diritti sociali, di rafforzamento dei servizi pubblici, facendo del libero accordo il trait d’union tra i diversi popoli. Così ovunque diciamo fondamentalmente la stessa cosa, con tonalità diverse. Non vogliamo che i catalani se ne vadano, ma questo lo dovranno decidere loro. Non è una sorta di buonismo etico, è una questione politica: fino ad ora la politica del PP è stata il miglior stimolo alla volontà indipendentista. Questo per una mancanza di responsabilità nei confronti dello Stato: a loro non importa incendiare la Catalogna se al contempo sono in grado di ottenere maggioranze elettorali a Madrid o a Valencia, mettendo gli spagnoli l’uno contro l’altro. Una signora di Barcellona mi diceva qualche settimana fa: “Ah, tu sei quello di Podemos. Mi piace Podemos, ma arrivate un po’ tardi per me”. Come a dire: “Se foste arrivati prima magari ora non sarei indipendentista”. Questo non significa che esserlo non sia legittimo, ma uno dei capisaldi del discorso indipendentista era che la Spagna fosse irreformabile, e penso umilmente che Podemos sia la dimostrazione che non è necessariamente così.
C’è un enorme divario tra il profilo sociologico delle vostre basi e dei vostri potenziali elettori. Come avete conquistato quella parte dell’elettorato tradizionalmente estraneo alle rivendicazioni della sinistra?
Siamo nati dicendo che la frontiera che separa le due metafore sinistra e destra non era la più importante. Questo ha causato un terremoto, accendendo molte passioni. Per una buona parte della sinistra è stato una sorta di sotterfugio elettorale per conquistare voti: è una parte della sinistra che non ha capito che in politica uno si sposa con i significati, non con i significanti, e che le metafore assumono il valore di ciò che riescono ad articolare. Non vi è nulla di essenziale nella bandiera rossa che rappresenti la dignità dell’essere umano. I giornalisti sono sempre alla ricerca dei nostri video, articoli, foto di 5 anni fa per dire: “Vedete? Sì che siete di sinistra”. Naturalmente noi veniamo da lì, ma il tipo di identificazione che si sta producendo è più della somma delle singole traiettorie. Si tratta di una nuova identificazione che crea un nuovo tipo di senso comune. La “marcia del cambiamento” dello scorso 31 gennaio era piena di persone che avevano votato per il PSOE e il PP. L’ultima indagine sulla composizione del potenziale voto di Podemos rivela che il 24,7% proviene da elettori del PP. C’è una parte della sinistra che pensa che questo non vada bene. Abbiamo una visione completamente opposta della politica. Si fanno le cose per bene proprio se si riesce a ri-articolare settori che fino a ieri stavano con il blocco di potere, costruendo insieme a loro una nuova identità politica con potenzialità contro-egemonica. Che cosa significa? Significa che la tipologia della nostra militanza è un po’ più tradizionale: persone che hanno attraversato l’esperienza degli anni ’70 e la successiva disillusione, ma che ora tornano a fare politica insieme ai giovani attivisti. Tuttavia, coloro che attraiamo elettoralmente sono persone che combinano simpatia e un po’ di paura. L’altro giorno una signora a Santander mi ha fermato dopo un comizio e mi ha detto: “Íñigo, posso farmi una foto con te? Mia figlia vi voterà e a me state molto simpatici, ancora non so se lo farò anch’io, perché mi è rimasta una buona pensione e non vorrei metterla a rischio”. Le rispondo: “Signora, ma rischiare cosa?” E lei: “No nulla, solo non vorrei che me la levassero”. In questo senso, il nostro modello organizzativo deve rispondere alla tensione tra i due settori, i quali potrebbero muoversi in direzioni opposte, e assumere toni e aspirazioni diverse. Per molto tempo la sinistra ha messo davanti i “come”, le procedure: andavamo piano, orizzontalmente, in rete, per consenso. Dobbiamo coniugare una cosa con l’altra e finora Podemos ha cercato di farlo preoccupandosi più del “cosa” che del “come”.
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 6 marzo 2015