di Marino Sinibaldi, direttore di Radio3
L’enorme tensostruttura bianca montata da qualche giorno di fronte all’ingresso di Birkenau per accogliere le celebrazioni del settantesimo anniversario della liberazione dei lager nazisti pare il simbolo più evidente delle difficoltà, gli incagli, gli equivoci che gravano sulla nostra memoria.
Con il suo ingombro accecante, con il suo lindo nitore, il tendone deforma irrimediabilmente – anche se temporaneamente – la cifra di quel luogo. Birkenau si estende infatti come un nudo spazio di sterminio, senza volumi né colori, un’enorme spianata putrida e decomposta da sempre, anche quando era “in piena attività” (formula oscena, che non si può non virgolettare quando alluda al funzionamento spietato della macchina del genocidio), un territorio arido e fangoso squadrato dalla logica dell’orrore e destinato unicamente alla nullificazione delle esistenze che riceveva in consegna: ogni cosa – le baracche tutte uguali, la scarna rete di viali, i famosi, tragici binari, perfino le fragili betulle ai margini – converge verso le camere a gas con i crematori capaci di lavorare a ritmi mai visti, liquidando migliaia di persone al giorno.
Non c’è altro, non avrebbe senso cercarci altro. Il cosiddetto campo base di Auschwitz, per dire, è già diverso: ci sono edifici, padiglioni, angoli di strade, spazi trasformati in musei. Nulla di meno feroce: il cieco cortile con lo stretto “muro della morte” è visione di ineguagliabile atrocità. Ma perfino la terribile esibizione dei resti del lager, le raccolte di oggetti, valigie, capelli strappati alle vittime, contengono una traccia di umanità, consentono un’emozione e una narrazione. A Birkenau nulla di tutto questo sembra possibile, come non ci fossero appigli per i nostri pensieri e le nostre parole.
Eppure vi ho visto centinaia di studenti toscani, arrivati con uno dei Treni della memoria, tentare disperatamente di riportare lì, in quel cratere di annullamento e morte, le tracce di uomini, donne, bambini, con un gesto semplice e fatale: pronunciando, sulla vasta scalinata che separa i due crematori più grandi, uno per uno i nomi dei deportati. Un elenco infinito, una sfilata che è sembrata interminabile come non può finire la sfida della memoria. Che è anzitutto questo: ridare un nome, se possibile una storia, comunque un senso per il futuro a qualcosa che ha cancellato per sempre nomi, senso e storie.
Per questo turba il tendone bianco piantato proprio lì a chiudere e nascondere le porte, le torrette, i binari. Non perché sconcerta i visitatori che non riconoscono più il celebre skyline dell’orrore – benché anche questa frizione, di tipo per così dire spettacolare, meriterebbe qualche riflessione. Ma perché rappresenta icasticamente il presente che si impone e si sovrappone al passato fino a deformarlo.
Intanto sul piano geopolitico: se davvero risulterà assente Putin, l’effetto non sarà una dimostrazione di forza contro il suo aggressivo autoritarismo, ma una evidente violenza alla storia e alla memoria. Non c’è sopravvissuto dei lager polacchi che non citi l’immagine liberatrice dei berretti con la stella rossa. Immagine che invariabilmente imbarazza chi sa come quel simbolo abbia marcato, specie qui in Polonia, la cupa dittatura del socialismo reale. Ma che non si può rimuovere senza accettare che il presente eserciti ogni diritto su (o contro) il passato.
Eppure non è questo il piano più importante e più critico oggi. La configurazione di quella che fu l’alleanza antinazista si è consumata da decenni. Il problema è che si sta consumando ben altro: le forme, i contenuti, i linguaggi della memoria, con le sue giornate più o meno rituali. Intanto perché altre memorie premono fino a confondere quel rapporto tra l’unicità della shoah e il diritto di altri stermini e genocidi a essere ugualmente ricordati.
Pressione che assume tratti stomachevoli quando si prova, per questo tramite, ad alimentare negazionismi e contrapposizioni (al tweet nel quale cominciavo a raccontare il viaggio ad Auschwitz, le prime due risposte hanno chiesto: “Perché non la nakba?” e “Perché non le foibe?”. Dopodiché ho smesso di twittare). Ma che può alimentare non una revisione ma un ampliamento e una precisazione del campo della memoria. Senza il quale si perde ogni possibilità di restituire la complessità di quello che è stato e la ricchezza di connessioni con il presente. Non è perciò più possibile ignorare quanti rom, omosessuali, dissidenti politici e religiosi abbiano, in misura significativa sebbene enormemente minore, condiviso la sorte dei milioni di ebrei. E quanto le discriminazioni colpiscano ancora, violentemente o subdolamente, proprio coloro contro cui un tempo, evidentemente non così lontano, si è scatenato lo sterminio.
E infine: come ricordare, rappresentare, trasmettere la profondità di quello che è accaduto ora che stanno scomparendo i sopravvissuti, ovvero i testimoni diretti che con le parole e i corpi segnati hanno oltrepassato ogni distanza e ogni rimozione? Non è un problema di informazione: i libri, i film, le trasmissioni radio e tv e le visite ad Auschwitz sono centinaia di volte più numerose di quello che accadeva anche solo dieci o venti anni fa. Ma i linguaggi si logorano facilmente. Se ne ha la riprova proprio nei blocchi di Auschwitz, dove quello che ospita il nuovo memoriale ebraico allestito da Israele fronteggia il fantomatico memoriale italiano: chiuso da anni perché non corrispondente ai nuovi criteri espositivi del campo, si è detto. Sicuramente avrà influito la presenza di una grande falce e martello che suggella, nell’ultimo dei pannelli pittorici, una sorta di viaggio nell’abiezione e nella rigenerazione nazionale – simbolo e ricostruzione considerati forse inaccettabili, dopo l’89.
Ma per quanto anche qui si debba contestare questa grottesca prevaricazione del presente ai danni del passato e delle sue verità, il padiglione era ormai incapace di trasmettere alcunché: né conoscenza né emozione, né pathos né ragione. Di fronte, il padiglione israeliano invece commuove e sconvolge con le immagini recuperate della Vita Prima (prima della shoah, prima del nulla), con i palinsesti dell’orrore (ovvero l’infinito registro degli sterminati), con una stanza dedicata allo sterminio dei bambini segnata unicamente dalle minime riproduzioni a matita dei pochi disegni infantili ritrovati nel lager.
Non è solo un problema di linguaggio o, per quanto il termine possa risultare equivoco, di creatività. È la pura e semplice incapacità di fare i conti con la propria storia, comprese reazioni e complicità mai indagate fino in fondo, e di guardare negli occhi le sue evidenti o sotterranee riproposizioni. Se non si è capaci di affrontarle, c’è poco da riportare in vita e da strappare all’orrore della nullificazione. C’è troppo poco coraggio e troppo poca verità prima che troppa o troppo poca memoria. E dunque tutto ritorna o può ritornare: l’indifferenza, l’assuefazione, la rimozione, la riduzione (e dunque l’antisemitismo, l’omofobia, il razzismo antirom e così via). Difficoltà e sfide che nessun tendone può occultare.
Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale il 26 gennaio 2015