di Antonia Battaglia
Il nuovo decreto Ilva, approvato in Consigli dei ministri il 24 dicembre scorso, è stato reso pubblico. Composto di nove articoli, il testo rappresenta un via libera totale e senza freni alla produzione dello stabilimento di Taranto, che viene definito di fondamentale interesse strategico nazionale e di pubblica utilità. Il principio di questo decreto è la volontà chiara di salvare lo stabilimento e di eludere il grave problema ambientale e sanitario, allungando i tempi della realizzazione di quelle misure contenute nell’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) per l’abbattimento, seppur parziale, di un inquinamento che è ormai totale e che ha toccato l’intero ecosistema dell’area.
Senza il rispetto dell’AIA (permesso a produrre), così come aveva sottolineato la Corte Costituzionale, l’Ilva non poteva garantire il bilanciamento tra diritto alla salute e diritto al lavoro e pertanto il sequestro degli impianti, del 2012, sarebbe potuto diventare di nuovo senza facoltà d’uso. Adesso l’AIA, scritta nel 2011, rivista nel 2012 e modificata nel marzo 2014 con un Piano Ambientale deludente e annacquato, non esiste de facto più.
Perché il decreto, che allunga i tempi affermando che tale piano si deve considerare completato qualora entro luglio 2015 venga realizzato almeno l’80% delle prescrizioni, in concreto non risponde al problema urgente: mettere un freno alla produzione che, secondo la Magistratura tarantina, inquina e uccide. Perché per il restante 20 % di misure da attuare in un futuro imprecisato (da definire con nuovo decreto ministeriale) ci potranno volere ancora anni, e in quel 20% ci potrebbero essere gli interventi più urgenti e costosi, quelli che farebbero la differenza sulla salute dei cittadini. Ad esempio la copertura dei cumuli di minerali e carboni, le cui polveri si diffondono incontrollatamente sulla città; o ancora, l’aspirazione delle emissioni nocive in fuoriuscita libera dallo stabilimento.
Il decreto pone l’Ilva sotto amministrazione straordinaria, in attesa di trovare un affittuario o acquirente, che possa acquisire l’azienda e garantirne la produzione senza alcun vincolo di natura ambientale o sanitaria. Si parla di bonifiche, rimandando al Piano Ambientale il cui completamento è di là da venire, e si specifica anche che il rapporto di valutazione sul danno sanitario, che potrà essere impugnato solo se la Regione ne chiederà il riesame, non potrà fermare il funzionamento dello stabilimento né modificare l’AIA.
L’Ilva è di pubblica utilità. Il massimo che il decreto concede ai tarantini, la cui vita viene ancora una volta mercificata, consiste nella promessa dell’insediamento di un nuovo “tavolo istituzionale” per il rilancio della città, della sua bellezza e della sua cultura. Misure e proclami lanciati per cancellare il fatto che il Governo ha deciso che l’Ilva deve continuare a produrre, così come ha fatto in passato, nonostante Taranto.
La urgente e indifferibile emergenza sanitaria che sta decimando la città non interessa. Perché fermare la devastazione avrebbe dovuto costituire il primo obiettivo del governo di uno Stato di diritto degno di tale nome. Il decreto approva anche le modalità di smaltimento di rifiuti pericolosi e non, già protette da un decreto dell’estate 2013, a firma del ministro Orlando. Le discariche all’interno dell’Ilva erano illegali, ma si è provveduto a renderle legali, questo nuovo decreto lo ribadisce.
Alea iacta est. Il Governo ha scelto di basare la sua competitività sulla malattia e la morte, mettendo al centro non i diritti naturali delle persone e gli investimenti in tecnologie che potrebbero garantirli, ma un nuovo e più odioso decreto che toglie alla popolazione la speranza di un futuro migliore. C’è un aumento costante dei casi di cancro, circa 1.000 nuovi malati ogni anno, in controtendenza rispetto al resto d’Italia, il cui tasso è in diminuzione. Ma la legge dice che Taranto non ha diritto a vivere, deve solo produrre e per contentino, in regalo, tanto orgoglio nazionale e la promessa di mirabolanti progetti culturali a richiamo della gloria passata della città.
Allungare ancora i tempi di attuazione dell’AIA vuol dire consegnare per certo la città e la sua gente ad anni di sofferenza. Lo dicono i dati sui malati di tumore, lo dice la Magistratura con le sue perizie, lo dice lo studio Sentieri, lo dice la Commissione Europea con il Parere Motivato lanciato sulla questione ILVA in ottobre 2014.
Il decreto, infine, stabilisce che i vertici della struttura non potranno essere perseguiti penalmente “per illeciti strettamente connessi all’attuazione dell’autorizzazione AIA e delle altre norme a tutela dell’ambiente”. Ovvero, i vertici della nuova Ilva non potranno essere perseguiti per nessuna delle azioni illegali che potrebbero commettere nell’esercizio delle loro funzioni poiché esse da oggi sono perfettamente legali. Il nuovo decreto assicura, quindi, che i reati di inquinamento attuale e futuro non possano essere perseguiti penalmente. Ai responsabili della nuova amministrazione Ilva è garantita l’immunità.
In questo senso va anche il Disegno di Legge 1345, sui delitti ambientali. In discussione al Senato da diversi mesi, il DDL 1345 è stato accolto da diverse associazioni come una norma salva-ambiente mentre, al contrario, esso, se approvato, depotenzierà qualsiasi azione della magistratura finalizzata a contrastare i crimini ambientali.
Una nuova petizione, lanciata da Legambiente per l’approvazione del Decreto Legge 1345 sui delitti ambientali, e firmata da diverse tra le più importanti associazioni nazionali, rappresenta un pericolosissimo assist al Governo che preme per una approvazione veloce di questa norma . Qualcosa non torna.
Il testo del disegno di legge, infatti, già approvato alla Camera e in discussione al Senato da mesi, desta numerose perplessità per vari motivi. Esso rappresenta un’ importante sanatoria per chi è o sarà accusato di aver commesso crimini ambientali, ma soprattutto esso mira a definire il disastro ambientale come “reato di danno” piuttosto che come “reato di pericolo”. Per accertare il reato di danno ambientale, infatti, si deve esser verificata una “alterazione irreversibile dell’ecosistema”, ma il testo non specifica i concetti di “compromissione” e di “deterioramento” dell’ambiente stesso, lasciando così margini larghissimi di interpretazione dei fatti e del reato di danno accaduto a chi tali reati dovrà giudicare.
Per accertare come irreversibile un danno ambientale dovranno passare molti anni: l’astrazione della definizione e il lavoro di ricognizione scientifica che il testo chiama in causa fanno presupporre che il reato sarebbe ipotizzabile solo dopo una eventuale dichiarazione di “irreversibilità” del danno ambientale, quindi solo dopo aver provato a ripristinare la situazione antecedente all’inquinamento, attraverso tentativi di bonifica e di decontaminazione.
Passerebbero decenni, perché i disastri possono restare a lungo “invisibili”, prima che emergano i segnali della compromissione totale. Un incendio, uno scoppio, una petroliera che perde in mare sono evidenti; i picchi di cancro negli anni no, possono essere nascosti con grande maestria e uccidere più della perdita di petrolio in mare. Il Ddl 1345 definisce il reato di danno ambientale quale evento “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela” al fine di portare la punibilità del reato di disastro ambientale al livello di meri regolamenti degli enti territoriali locali e quindi per poter perseguire illeciti, anche importanti, con mere ammende amministrative. Si permetterebbe a chi inquina a continuare a operare senza alcun problema di tipo penale e diventerebbe molto difficile per la magistratura poter punire i reati in oggetto. La punibilità di fatti gravissimi dipenderebbe solo dall’osservanza di carenti norme amministrative.
“Chi inquina paga”, se ha violato disposizioni amministrative, e solo se prima il danno è stato definito irreversibile e la sua riparazione è troppo onerosa per lo Stato. Perché non si definiscono nuove e più pregnanti regole per fermare la devastazione che avanza in diverse zone del Paese, ma si sposta l’ago della bilancia in favore dell’inquinatore? Perché a Taranto ed in altri luoghi esposti al forte inquinamento, tutto avviene secondo le regole, secondo le norme.
Perché le leggi italiane in fatto di emissioni industriali, di smaltimento di rifiuti, di contaminazione, di controllo sulle sostanze immesse in aria acqua etc. non sono adatte a proteggere i cittadini. Né i controlli, affidati alle Agenzie Regionali di Protezione Ambientale si sono mai rivelati all’altezza dei problemi riscontrati. Il Ddl 1345 è pericoloso per Taranto, Porto Tolle, Gela e Milazzo, Tirreno Power, Brindisi, le discariche romane, la Terra dei Fuochi e per le altre realtà italiane dove sono in atto reati ambientali tra i più gravi in Europa.
Perché Legambiente si mette dalla parte delle lobby e del governo? Perché non si batte, assieme alle altre associazioni, al nostro fianco per una revisione drastica dei limiti di diossina, cosa che potrebbe salvare tante vite umane? Perché non si battono per la legislazione sul benzo(a)pirene, sugli IPA, sui PCB? Per il processo Ilva, la conseguenza dell’approvazione della nuova legge potrebbe essere quella di una revisione delle richieste di rinvio a giudizio e quindi dell’apertura di una battaglia legale mirante a sfruttare le numerose ambiguità del nuovo documento. Il Disegno di Legge 1345 è l’arma che può salvare chi è reo di gravi crimini ambientali, perché esso non rende più incisiva la legge né stabilisce limiti dei diversi inquinanti che fanno ammalare e uccidono.
Se il nuovo decreto legge Ilva/Taranto, annunciato lo scorso 24 dicembre, dovesse essere approvato come tale, quindi liberandosi dalla urgente applicazione delle prescrizioni AIA, inquinare a Taranto sarebbe non punibile se non con ammende amministrative. Immettere nell’aria livelli elevanti di diossina, di IPA, di benzoapirene oggi, dopo l’accertamento della magistratura, è un reato penale: il GIP di Taranto parla di attività criminosa. Se il Ddl 1345 fosse approvato, i rei non potrebbero essere perseguiti.
Il senatore Felice Casson ha presentato una serie di emendamenti correttivi al testo originario, testo il cui obiettivo, lo ribadiamo, è quello di limitare l’azione penale della magistratura. Gli emendamenti presentati vogliono, tra l’altro, sganciare il reato dalla applicazione delle norme amministrative e definire in maniera più esatta e pregnante il concetto di inquinamento, riportando la partita nel campo del pericolo ambientale e sanitario, che viene esplicitamente menzionato.
Resta profondamente sconcertante che Legambiente, WWF e Greenpeace abbiano sostenuto la petizione che vuole l’approvazione immediata di una legge che depotenzia il reato ambientale da penale ad amministrativo. Oggi esiste un pericolo concreto e la magistratura interviene per disastro ambientale, domani prima di intervenire dovrà attendere di accertare la fine dell’ecosistema per arrivare ad una multa.
Questo articolo è stato pubblicato su Micromega online il 5 gennaio 2015