di Aldo Tortorella, intervento all’inaugurazione di Largo Berlinguer a Napoli
Voglio innanzitutto ringraziare come napoletano di nascita, di famiglia e, spero, di sentimenti il Comune di Napoli e il suo sindaco, per questa iniziativa che fa onore non ad una parte politica ma a tutta la città perché in ogni momento storico, ma particolarmente in questo che l’Italia viene attraversando, giova all’insieme della comunità la memoria di coloro che per tutta la vita, hanno servito con lealtà e con intelligenza il loro paese e, in esso, la parte sociale più indifesa e più priva di potere, quella su cui grava la fatica maggiore del reggere la società. E questo è stato innanzitutto Enrico Berlinguer: un uomo politico che ha speso la sua esistenza e il suo ingegno per la causa della pace, della democrazia, della giustizia sociale, del riscatto delle classi lavoratrici nel proprio paese e nel mondo.
A lungo la sua memoria fu ignorata o avversata. Si fece appello, come fu scritto, a “dimenticare Berlinguer” anche dall’interno di quello che era stato il suo partito. È accaduto il contrario. Oggi, a cosi grande distanza dalla sua scomparsa, in un mondo radicalmente cambiato gli hanno reso omaggio anche molti che furono a lui contrari od ostili durante la sua vita e dopo di essa perché la sua memoria è stata tramandata ed è rimasta viva anche in parti diverse e lontane da quella che fu la sua.
Spesso, però, è stato ricordato unicamente come uomo integerrimo, capace di vivere con rigore il proprio ideale. Egli è stato molto più di questo, ma – certo – basterebbe già questo a renderlo indimenticabile nei tempi di avvilimento della politica che andiamo vivendo. La sua opera è divenuta via via più memorabile perché molte delle sue indicazioni politiche, che sovente furono riguardate con alterigia e persino con scherno, sono risultate profetiche. Disse “austerità” e gli si rispose che aveva una visione da frate zoccolante. Parlò di “questione morale” e gli si obiettò con sufficienza che già dal Machiavelli la politica era scienza diversa dall’etica.
Il passare del tempo ha tolto di mezzo queste grossolanità. Quando i conti del Paese annunciarono la bancarotta e l’indecenza di tanti politici si fece rivoltante ci si appellò alle sue parole tuttavia mutandone il segno. Austerità non era per lui una politica che gravasse su coloro che una vita austera o addirittura povera la vivono da sempre, ma esattamente il contrario. E questione morale non voleva dire soltanto la doverosa caccia al ladro, ma la fine della commistione perversa tra politica e gestione del danaro pubblico, il ritorno dei partiti alla loro funzione di organizzatori della partecipazione democratica, la impossibilità di una politica senza principi di valore da affermare e di cui rispondere. Pensiamo come sarebbe oggi diversa l’Italia se trenta anni fa si fosse praticata la linea sostenuta da Berlinguer.
Per lui il compromesso doveva essere “storico” perché avrebbe dovuto affrontare i problemi antichi del paese, a partire dalla questione meridionale, modificando il tipo di sviluppo, la ripartizione della ricchezza prodotta, l’uso dell’accumulazione. L’assassinio di Moro, capolavoro della eversione di destra coperta da una sigla di presunta sinistra, stroncò quella speranza e fu gran merito di Berlinguer tentare un’altra strada, quella dell’alternativa democratica, cercando di riformare il proprio stesso partito, e il suo programma fondamentale, a partire dalla questione ecologica e dalla comprensione della tematica di un femminismo che non accettava più di adeguarsi al modello maschile, ma lo metteva sotto accusa per le sue conseguenze di competizione esasperata, di reciproca sopraffazione e di guerra. Gli fu rimproverato di essere andato ai cancelli della FIAT in lotta a dire che il suo partito sarebbe stato sempre a fianco dei lavoratori. Ma non c’è sinistra possibile se non sa perseguire il radicamento tra i lavoratori – stabili, precari o autonomi che siano – e tra i ceti meno protetti e senza potere. Se dimentica che quella è la sua parte sempre e comunque, nel mutare delle condizioni storiche e delle forme e metodi della produzione.
Egli fu, certo, uomo del tempo suo. Il tempo della divisione del mondo e della guerra fredda. Scelse la parte degli sfruttati e il partito comunista. Ma non fu mai uomo di fazione. Disse poco prima di morire che la cosa di cui era più orgoglioso era di essere rimasto fedele agli ideali della sua giovinezza. Non erano le parole di un cocciuto. Prima di esse aveva dichiarato davanti alla più alta assise sovietica che la democrazia è un valore universale. E aveva aggiunto che la spinta della rivoluzione d’ottobre si era esaurita, con ciò aprendo la ricerca di una strada interamente nuova. Egli ha voluto ridare l’onore all’idea cui aveva aderito chiamandosi comunista, una parola macchiata da tante brutture e delitti che niente hanno a che fare con la lezione di Marx o di Gramsci. Anche per questo egli è stato un grande italiano, un uomo che ha fatto conoscere e amare il proprio paese nel mondo.
Viviamo un altro mondo, sbaglieremmo se pensassimo di trovare in lui, come in altri dei tempi passati, le ricette per il presente. Ma se la sappiamo scorgere c’è una traccia da scoprire. Innanzitutto quella di un modo di intendere la politica come lotta per un mondo migliore, come un impegno della coscienza, come un dovere umano e morale da compiere.