di Luca Cangianti
Ci sono interrogativi così complessi che necessitano della letteratura, oltre che delle scienze storiche e sociali, per esser affrontati con successo. Una questione oggi ineludibile è come sia stato possibile che la speranza di un mondo migliore tramontasse, in Italia e in generale in Europa, nell’oscuro presente della precarietà e della crisi, dove il disagio e la sofferenza non sembrano più trovare prospettive diverse dalla guerra tra poveri.
Chi ha del ferro ha del pane (Mondadori Strade Blu, pp. 550, € 18,00) è il secondo, autonomo volume del “Sole dell’Avvenire”, il ciclo di romanzi che Valerio Evangelisti sta dedicando allo sviluppo del movimento operaio in Emilia Romagna. Il libro è una ricostruzione storica attenta ai minimi dettagli, perfino topografici (le vie, le piazze) e merceologici (il liquore Strega, la vettura Fiat 24-32 HP, gli aratri Acme) e offre, accanto al fondamentale piacere della narrazione, un sottotesto ben congegnato di spunti teorici. Nel seguire le vicende di alcune famiglie emiliano-romagnole dal 1900 al 1920 riviviamo gli scioperi generali d’inizio secolo, la Settimana rossa del 1914, la carneficina della Prima guerra mondiale, il biennio insurrezionale del 1919-20 e gli albori dello squadrismo fascista.
Pur in un’ambientazione rigorosamente storica, i riferimenti al presente sono molti: la disoccupazione, il lavoro precario, le alluvioni (il fiume Idice che straripa il 29 marzo 1902), le delocalizzazioni produttive, lo sventagliamento contrattuale per indebolire la conflittualità del lavoro dipendente, la colonizzazione del partito socialista da parte di un ceto politico di avvocati, giornalisti, letterati e politicanti di mestiere che hanno interessi diversi da chi dovrebbe rappresentare. Troviamo perfino il finto lavoro autonomo dei mezzadri e dei terzadri indotto per rompere le dinamiche di solidarietà e far sentir piccoli proprietari quelli che in realtà sono meri salariati.
I protagonisti che accompagnano questo viaggio sono ancora una volta donne e uomini di umili origini, rappresentati senza enfasi e retorica vittimistica. Sono persone che acquisiscono coscienza della realtà, direttamente sulla loro pelle. Eleuteria sembra una ragazza fragile, “delicata come un passerotto”; Aurelio si concepisce all’inizio “come il motore nel camion”, cioè come mero e irresponsabile meccanismo di trasmissione di volontà altrui. Narda infine parte da una condizione d’inferiorità, enfatizzata anche nella minutezza del fisico, per arrivare, spinta da eventi drammatici, all’eroismo più nobile e spontaneo.
Attraverso questi occhi semplici, spesso stupiti, ma acutissimi, il lettore fa esperienza delle istituzioni proletarie d’inizio secolo. Per esempio le Camere del Lavoro e le leghe di resistenza, che si battevano per ottenere tavoli di trattativa con i datori di lavoro, i contratti scritti e le otto ore, ma che “erano anche, in parte, circoli ricreativi. Vi si giocava a carte, si beveva vino genuino a buon prezzo, si cantava, si rideva e si litigava”. Oppure le cooperative di produzione e di consumo che in un primo momento avevano contribuito a migliorare le condizioni di vita popolari, tanto che alcuni socialisti sostenevano che la cooperazione fosse già il socialismo e che bastasse estenderla all’intera società. Altri socialisti, invece, invitavano a vigilare affinché non si degenerasse in una nuova forma d’impresa borghese (e qui viene in mente il dibattito sul terzo settore che ha attraversato l’Italia negli anni Novanta del XX secolo).
Nelle prime decadi d’inizio Novecento, le forme di lotta andavano dallo sciopero al boicottaggio, a metodi meno convenzionali e controllabili quali il sabotaggio, il “gallo rosso” (l’incendio dei pagliai diffusosi nella rivoluzione russa del 1905) e i “cicloni”. Questi ultimi erano delle squadre di operai agricoli che “in sciami, calavano in bicicletta sui poderi esigendo immediati aumenti di salario. Non erano sindacalisti rivoluzionari e nemmeno anarchici o socialisti di qualche scuola più o meno estrema. Somigliavano a un fenomeno naturale.” Nel 1919, infine, si diffusero anche gli espropri di automobili, che venivano utilizzate per andare a chiedere la solidarietà degli operai e dei braccianti di altre città.
A fronte di tanta effervescenza rivoluzionaria dal basso, i vertici erano divisi e inconcludenti: “perché ogni socialista ha un’idea diversa su come arrivare al risultato?” si chiede un personaggio del libro, mentre un altro afferma: “La Settimana rossa sembra avere spaventato più i socialisti che i borghesi”. Il panorama delle correnti includeva i socialisti intransigenti di Enrico Ferri, i riformisti (un “socialismo piccolo piccolo… più utile a chi comanda che a chi vorrebbe e dovrebbe ribellarsi”), i massimalisti spesso dogmatici e impermeabili alla realtà e i sindacalisti rivoluzionari come Arturo Labriola secondo il quale, potendo nascere il socialismo solo dal capitalismo, bisognava auspicarsi la totale libertà di mercato, senza alcun ostacolo per i capitalisti. Altri sindacalisti rivoluzionari dalle posizioni meno paradossali, invece, teorizzavano uno sciopero generale a oltranza che paralizzasse l’intera società permettendo alle Camere del Lavoro di sostituirsi ai municipi, e agli scioperanti di assumere il controllo delle fabbriche.
E così mentre il lettore è ormai avvolto dalla simulazione storica del romanzo e segue le vicende dei protagonisti tra Rimini, Molinella, Bologna, Ferrara e molte altre città emiliano-romagnole, cominciano a emergere molti interrogativi che mantengono ancora oggi, pur in condizioni diverse, una forte attualità: perché alla potente conflittualità sociale non fanno seguito organizzazioni e istituzioni antagoniste all’altezza della situazione? Come mai la storia del socialismo è così profondamente attraversata da attori nati su posizioni radicalmente di sinistra e finiti nelle fila dell’interventismo bellico, del nazionalismo e del fascismo (come del resto Arturo Labriola e Benito Mussolini)?
Nell’odierno panorama europeo in cui destra e sinistra sembrano implementare le stesse politiche economiche, tali questioni sono cruciali. Da questo punto di vista il titolo del romanzo di Evangelisti sintetizza molti paradossi. “Chi ha del ferro ha del pane”, infatti, è una frase tratta da un “brindisi” del rivoluzionario francese Auguste Blanqui che fu affiancata alla testata del Popolo d’Italia, il giornale interventista fondato da Benito Mussolini. Nelle intenzioni di Blanqui, quella frase, pur nella sua estetica barricadiera, alludeva alla necessità di dotarsi di strumenti adeguati agli obiettivi da conseguire. In questo senso nella storia dei movimenti sociali è un monito spesso disatteso. Tuttavia il fatto che uno slogan socialista riappaia su un giornale che diventerà organo del partito fascista, ci insegna che, laddove la rivoluzione si palesi senza vincere, si producono mutazioni sugli stessi strati sociali popolari. Tale dinamica è esemplificata nel romanzo dalla trasformazione psicologica e perfino fisica di un personaggio, da socialista ad aiutante di possidenti agrari, a organizzatore di crumiri e picchiatore nazionalista.
Ovviamente un romanzo, anche se storico, non è deputato a fornire risposte a interrogativi epocali, e tuttavia ricostruendo un mondo passato, i suoi abitanti e i relativi stati emotivi, ci può aiutare a osservare quasi in vitro alcuni snodi fondamentali. A volte, infatti, gli strumenti della standardizzazione scientifica vanno accompagnati con la creazione di modelli artificiali e finanche immaginari con i quali sia possibile condurre delle simulazioni. È per questo che Chi ha del ferro ha del pane è un’opera che, oltre a esaltare il piacere della lettura, si rivela molto utile alla comprensione del presente.
Questo articolo è stato pubublicato su Micromega online il 9 dicembre 2014