di Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
È stato ampiamente descritto tutto ciò che riguarda il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (da alcuni, a buon diritto, definito come il Tribunale di Mussolini), con relazioni più che esaurienti. Ne esce l’immagine di un organismo programmato per andare perfino al di là della repressione del dissenso, tipica di qualsiasi regime totalitario, dunque di un organismo espressione della violenza di un potere che aspira ad essere assoluto.
Non insisterò sui singoli aspetti e mi limiterò invece, in questa fase conclusiva, ad elencare molto rapidamente i dati su cui fondamentalmente si basa questo giudizio di una assoluta violenza, destinata anche a funzionare come deterrente e come intimidazione, nel modo più brutale. La legge fu varata per espressa volontà di Mussolini, anche a seguito degli attentati compiuti in quel periodo; fu varata alla Camera in una sola seduta, in un’atmosfera di forte intimidazione, nello stesso momento in cui fu dichiarata anche la decadenza dei deputati “aventiniani”.
La legge prevedeva pene durissime, fino alla pena di morte, per l’occasione ripristinata; erano considerati punibili severamente anche comportamenti meramente preparatori; si prevedeva la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni per i cittadini che compissero attività antinazionali all’estero. Si rendeva applicabile – per i reati attribuiti alla competenza del Tribunale speciale – la procedura penale militare per i reati compiuti in tempo di guerra. Il Presidente era nominato dal Ministro della giustizia ed era assicurata una forte presenza dei membri della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. L’organo dell’accusa era strettamente dipendente dall’esecutivo. Era previsto un solo difensore, senza diritto ad ottenere copia degli atti. Una linea telefonica collegava direttamente la Camera di Consiglio agli uffici del Duce, a Palazzo Venezia.
Negli anni (e particolarmente nel 1939 e nel 1944 ) la competenza del Tribunale speciale fu estesa anche a reati comuni, assolutamente estranei, rispetto a qualsiasi manifestazione di dissenso. Ripristinato dalla R.S.I., il Tribunale speciale mantenne ed irrobustì tutte le sue più violente caratteristiche, accompagnate da una serie di altre strumentazioni e apparati destinati a colpire ogni comportamento che non fosse compatibile con le linee di fondo perseguite dalla Repubblica sociale.
Nel breve periodo di vita, prima della Liberazione, il Tribunale speciale celebrò 1460 processi, con quasi altrettante condanne, di cui 47 a morte. Complessivamente, il Tribunale speciale, nel periodo tra la sua costituzione (1927) e la caduta del regime fascista (1943), aveva processato 5619 imputati, condannato 4596. Gli anni totali di prigione inflitti furono 27.735; 42 le condanne a morte di cui 31 eseguite, tre ergastoli.
Se si aggiungono a questi dati, che traggo da un libro recente sull’8 settembre, i dati relativi al confino di polizia, da cui furono colpiti circa 15.000 cittadini, si ha un quadro rivelatore di un’estrema violenza nella repressione del dissenso ideologico e politico (giustamente evidenziata in tutti i suoi aspetti dalla relazione di Guido Neppi Modona), con un’estensione ed una brutalità che reggono bene il confronto con simili provvedimenti adottati da altri Stati totalitari o da altri regimi autoritari. Un quadro, peraltro, che va completato col riferimento ai numerosi casi di emigrazione politica obbligata, della quale è assai difficile fornire dati numerici, ma che comunque fu importante e riguardò numerosi personaggi politici anche di grande rilievo. La discussione se, in questo modo, si sia definito un quadro autoritario o semplicemente totalitario, mi sembra oziosa in questo contesto di brutalità e violenza privo di limiti, funzionale a garantire – nel pensiero di Mussolini e del Partito fascista – la “fascistizzazione” del Paese, l’annullamento di qualunque forma di dissenso e perfino di diversità, come vedremo, con l’attribuzione al Duce di ogni potere (secondo non pochi “giuristi” fascisti, anche il potere di creare un diritto che sarebbe paradossale definire come “libero”).
E qui si pone un problema di una certa rilevanza: fu il Tribunale speciale, nel suo orrore e nella sua virulenza, una sorta di masso erratico in un sistema complessivamente diverso e in qualche misura “bonario”, oppure non fu che una delle tante manifestazioni con cui si caratterizzò, in senso assolutamente negativo, il Regime fascista? In altre parole, quel fascismo che secondo i dati che emergono da varie indagini, aveva già fatto 3.000 morti prima di assumere il potere, che si era distinto con l’incendio delle Case del Popolo, gli attacchi ai Sindacati ed ai sindacalisti, con alcune uccisioni particolarmente clamorose, con l’olio di ricino e con bastonate a chi veniva ritenuto colpevole di non essere dalla parte delle “squadracce” o anche solo di avere dei “precedenti” come sovversivo, e così via; quel fascismo si limitò, una volta raggiunto il potere e, come fanno tutti i regimi autoritari, a cercare di eliminare ogni forma di dissenso, oppure usò ancora e sempre la violenza originaria, ovviamente in altre forme, ma con la stesa volontà di assicurassi un potere assoluto? La risposta emerge con facilità già da quello che ho rilevato sulla specificità del Tribunale speciale sia fino al 1943, sia nel periodo successivo (magari anche con un’ ulteriore recrudescenza), riassumendo, in sostanza, tutto ciò che è stato ampiamente descritto nelle belle relazioni svolte in questa sede. Il Tribunale speciale fu, da solo, un’ espressione manifesta di una incontenibile violenza e di una brutalità senza pietà e senza scrupoli. Bisogna subito precisare che non fu la sola manifestazione di una criminale violenza, anzi si inserì in un contesto che va almeno sommariamente descritto, se non nella totalità dei suoi aspetti, almeno in riferimento ad alcune manifestazioni particolarmente significative. Le esaminerò molto rapidamente, ribadendo che si tratta di un quadro che non pretende di essere esaustivo, ma aspira solo ad essere, quantomeno, indicativo di una crudezza di comportamenti.
Ho scelto, per rendere complessivamente una situazione che contrasta con la leggenda del fascismo “mite”, sei esempi: la politica “coloniale”; le persecuzioni razziali; i campi fascisti di concentramento e smistamento; la partecipazione alle stragi civili; l’uso politico dei manicomi; la violenza della Repubblica di Salò.
Di ognuno di questi, mi limiterò a fornire alcune tracce significative, trattandosi di materie già ampiamente esplorate da studiosi e ricercatori, con un crescendo di ricerche che si va sempre più arricchendo. Le politiche “coloniali”, intese non tanto nella scelta dei luoghi, quanto nei comportamenti tenuti per acquisirli e “fascistizzarli”.
Sull’occupazione della Grecia e della Jugoslavia, basterà dire che alcuni studiosi indicano rispettivamente in 100.000 e 250.000 le vittime, mentre i dati forniti dai Paesi interessati sono ben più rilevanti ( per esempio, secondo le Autorità greche , le vittime ascenderebbero a 620.000, di cui 326.000 decedute per fame). Per la sola Slovenia ci sarebbero state ben 1.569 esecuzioni capitali e 1.376 uccisioni in campi di concentramento italiani. La violenza repressiva fu elevatissima, come dimostrato da un attento e recente studio storico. Su altre vicende, prevalentemente africane, si è già scritto e reso noto più che abbastanza: la fascistizzazione di cui è colma la nota canzone “Faccetta nera”, è davvero uno scherzo tutto miele, al confronto dei comportamenti dei militari italiani, spesso brutali e violenti. A fronte di tutto questo, è singolare che l’Italia sia sempre riuscita a sfuggire alle sue responsabilità, anche quando la Commissione delle Nazioni Unite compilò una lista dei criminali di guerra, chiedendo di poterne processare 729 per la Jugoslavia, 111 per la Grecia e 5 per l’Albania. Non ci fu nessuna estradizione, né alcuna disponibilità del nostro Paese, ma i fatti restano e sono ampiamente descritti in interi volumi che rappresentano i crimini di guerra compiuti e smentiscono la tesi del “fascismo mite” in campo coloniale , così come era avvenuto anche per politiche coloniali di altri tempi.
Le persecuzioni razziali. L’Italia, come è noto adottò più che tempestivamente una legislazione razziale pesantissima, accompagnata anche da provvedimenti amministrativi che non consentivano alternative. Ma non ci si limitò, come si vorrebbe sostenere, ad un’applicazione “blanda” . L’applicazione di quella legge si risolse in una vera e propria persecuzione degli ebrei, sia nel periodo tra le leggi razziali e la caduta del regime, sia nel periodo successivo (quello della R.S.I.) che non esitò a mostrarsi particolarmente feroce, benché – all’epoca – ci fosse ben altro da pensare ed affrontare al di là della persecuzione dei “diversi”. Secondo un’indagine, sarebbero stati deportati dell’Italia in Germania tra i 7.400 e i 7.600 ebrei, 5.896 avrebbero perso la vita nei campi di sterminio e 824 sarebbero sopravvissuti; altri 299 perirono, sempre secondo quelle ricerche, nella penisola.
È molto probabile che si tratti di stime per difetto. È certo, comunque, che il regime non “perdonò” nessuno e cercò di mostrarsi nel suo aspetto più feroce anche all’alleato tedesco, per evidenti motivi collegati anche a quella sorta di subalternità culturale e politica che ha sempre contraddistinto i rapporti dell’Italia con il Reich.
Questo tema si collega, in qualche modo, anche a quello che verrà successivamente tratteggiato; e dunque appaiono inutili, in questa sede, ulteriori approfondimenti sui dati. I campi di concentramento e smistamento in Italia È ormai assodato e pacifico che i fascisti svolgessero anche un lavoro di notevole entità nel fornire alla Germania “carne da macello” (nella migliore delle ipotesi ” carne da lavoro”), fornendo elenchi e segnalazioni , ma soprattutto raccogliendo in appositi campi di “smistamento” e di concentramento vero e proprio, molti ebrei, molti oppositori politici e molti “diversi”.
Su questo aspetto, c’è stato un eccessivo, assordante silenzio. tant’è che spesso si parla solo dei campi più noti (Fossoli, Bolzano, Ferramonti, Borgo San Dalmazzo e, per alcuni versi, la risiera di San Sabba). Al riguardo, sono da fare subito due rilievi, il primo è che se l’ultimo dei campi citati fu in qualche modo “ceduto” dalla Repubblica di Salò ai tedeschi, che poi lo gestirono, tutti gli altri furono gestiti direttamente dai fascisti, magari in collaborazione con “esperti” tedeschi e sotto la loro vigile direzione. Il secondo è che secondo altre valutazioni, i campi – sul territorio italiano – furono ben 46, sparsi su tutto il territorio nazionale. È del 4 settembre 1940 un decreto firmato da Mussolini con cui si istituivano i primi campi di prigionia per gli antifascisti ( molti dei quali già al confino), per gli ebrei, per gli stranieri presenti sul territorio italiano , provenienti da paesi nemici ( come sloveni e croati) e altre minoranze come gli zingari e gli omosessuali.
Il “materiale umano” per questi campi di concentramento e smistamento era prevalentemente fornito dai fascisti ( i registri del Carcere di San Vittore, tanto per fare un esempio, lo dimostrano ampiamente ), ed anche quando esso sembrava provenire dai tedeschi, in realtà le indicazioni e gli elenchi erano di sicura provenienza fascista, come del resto è avvenuto anche per diversi casi di rappresaglia ( per tutti, quello terribile delle Fosse Ardeatine). In quei campi sono morti non pochi antifascisti, ebrei e “diversi”; altri sono stati inviati ad altri campi di smistamento (ad esempio, Bolzano), ma sempre con sicura destinazione finale per la Germania (Auschwitz, Gusen, Mauthausen, etc.).
La partecipazione alle stragi È stato molto comodo, per lungo tempo, attribuire la responsabilità per le stragi del “43-44” ai tedeschi; in gran parte, questo è assolutamente vero, ed è ormai pacificamente accertato il gravissimo livello di barbarie e di annullamento dei diritti umani a cui giunsero non solo le SS, ma anche reparti militari “normali” della Germania. Ma è altrettanto vero: che a molte di queste stragi collaborarono e parteciparono attivamente i fascisti; che alcune delle stragi, anche di quelle piuttosto note, furono compiute direttamente dai fascisti, che, infine, molte di quelle stragi poterono essere compiute solo in virtù della collaborazione decisiva dei fascisti, anche solo per l’indicazione dei luoghi e delle possibilità di accesso (per tutti, mi riferisco al caso di Sant’Anna di Stazzema, impossibile da raggiungere, per la sua collocazione geografica tra i monti, senza una precisa segnalazione e senza l’aiuto effettivo dei fascisti del posto o comunque di quell’area).
In occasione di non poche di queste stragi, i fascisti si resero attivi e feroci protagonisti di un’ulteriore forma di orrore, quale l’esposizione a lungo dei cadaveri sul posto dove era avvenuta la fucilazione o l’impiccagione, come ” ammonimento” per i cittadini (basti ricordare, a questo proposito, la vicenda di Piazzale Loreto, a Milano , il 10 agosto 1944, di 15 “oppositori” con brutale e violenta esposizione al pubblico per due giorni). L’utilizzo politico dei manicomi Era già noto qualche caso di invio di “oppositori” e semplici “disturbatori”, anziché al confino, nei manicomi, per limitati periodi di “ammonimento” oppure per tempi anche prolungati.
Ora, però, una pubblicazione recentissima ha preso in esame ben 44.540 biografie di antifascisti schedati e da questa indagine sono emersi 475 casi di donne e uomini sottoposti ad internamento psichiatrico, in via diretta o come complemento a precedente reclusione in carcere o al confino. Sono centinaia di casi, dunque, che non possono non richiamare l’attenzione sull’uso politico di uno strumento barbarico e pesante come l’internamento manicomiale, che si affiancava – come è stato rilevato – ai più noti strumenti per la repressione del dissenso. Naturalmente, in questa sede, non posso far altro che prendere atto del lavoro di chi ha dedicato a questo tema anni di studio.
Ma non è possibile non sottolineare che, se per mettere in campo il Tribunale speciale ed altri strumenti repressivi fu necessaria una legislazione speciale, per l’uso politico dell’internamento manicomiale non fu necessario alcun provvedimento specifico. Bastò avere semplicemente spregiudicatezza e brutalità per utilizzare uno strumento di violenza già disponibile. Per tutti, citerò due casi che mi hanno particolarmente colpito: quello di un avvocato socialista, già schedato come sovversivo in un periodo precedente al fascismo e naturalmente considerato degno di attenzione appena si instaurò il regime: perquisizioni e devastazioni dello studio professionale, isolamento e riduzione alla miseria furono i primi strumenti.
Quando poi l’avvocato, disperato, perse la testa e indirizzò a Mussolini una lettera, che conteneva un riferimento a certi “documenti” di particolare rilievo, la preoccupazione indusse addirittura al ricovero temporaneo in manicomio. Il tempo di compiere perquisizioni e di svolgere ulteriori ricerche e poi, scoperto che non c’era nulla, la dimissione di un uomo, ormai ancor più disperato e ridotto alla miseria per sempre.
L’altro caso è quello di un funzionario statale, ritenuto oppositore e quindi ricoverato in un manicomio ed espulso dall’ufficio; nel manicomio trascorse 10 anni e quando fu liberato ( era caduto il regime) fu verificato che era idoneo a ricoprire lo stesso posto di prima, come in effetti avvenne, a riprova che non c’era mai stata una vera ragione per l’internamento che non fosse riconducibile alla violenza. Due casi, due storie a cui se ne potrebbero aggiungere tante altre, ormai pienamente documentate, ma credo che questi pochi rilievi siano sufficienti indici di ulteriore barbarie e di particolare, disumana violenza. Infine, la violenza della Repubblica di Salò, che non è rapportabile ad un momento particolare, ma va riferita pur sempre alla drammatica esperienza del fascismo. Ho già detto dell’immediato ripristino del Tribunale speciale, dei numerosi processi svolti in poco tempo e delle condanne a morte comminate con altrettanta rapidità.
Ed ho fatto riferimento anche agli altri provvedimenti complementari agli istituti della repressione, che si diffusero come funghi nel pur breve periodo di durata della “Repubblica sociale”. Esiste una pubblicazione specificamente dedicata alla violenza fascista durante la RSI, con un titolo apparentemente sibillino (“Leoni vegetariani”), che in realtà trova una chiara ed inequivocabile spiegazione in un vicenda descritta, appunto, nel libro. Si tratta di un telegramma inviato da Mussolini il 25 giugno 1944 ai Capo provincia della RSI. Vale la pena di riportarlo integralmente: “poiché alcuni leoni vegetariani continuano a parlare di una eccesiva indulgenza del Governo della Repubblica, siete pregati di mandare telegraficamente i dati delle esecuzioni avvenute di civili e militari con processi o sommarie dal 1° ottobre in poi”.
Mussolini voleva avere dati che dimostrassero ai “leoni vegetariani” (il significato della espressione spregiativa è evidente) che la RSI non era seconda a nessuno in fatto di violenza. E ci riuscirà facilmente perché ciò risulta da un’inchiesta, condotta dal Ministro dell’interno per incarico dl Duce, che – secondo alcuni studiosi – fornisce dati sovrastimati proprio per dimostrare gli effetti dell’azione armata fascista, ma che ha un consistente fondamento di realtà: 2.212 esecuzioni capitali documentate e 1.413 conteggiate come effetto di azioni armate dei militari fascisti. Lo stesso fatto che per Mussolini (e anche per gli esecutori materiali, ovviamente) non faccia gran differenza che si tratti di esecuzione di sentenze o di esecuzioni sommarie è significativo e rivelatore del “clima” di violenza instaurato dalla RSI.
Scrive l’Autrice del libro citato, sulle violenze compiute dalla RSI, che l’analisi delle politiche repressive fasciste mette in luce la presenza di elementi di collegamento sia con l’esperienza della violenza squadrista delle origini, sia con la violenza contro le popolazioni civili espressa dall’Italia in qualità di potenza occupante, durante la guerra, di aggressione fascista; una “violenza strutturale e selettiva” che appare all’Autrice di per sé sufficiente a demolire l’immagine di un fascista repubblicano “bonario”. Inutile ricordare al riguardo la brutalità e la violenza dei comunicati fascisti che promettevano ai renitenti alla leva e/o disertori l’immediata fucilazione sul posto e tutte le altre misure repressive e violente che caratterizzarono la pur breve durata della cosiddetta Repubblica sociale. Infine, all’estensione della competenza (e della normativa) del Tribunale speciale ad una serie di reati comuni (violenza carnale, rapina, estorsione, omicidio volontario, etc.), che altro senso si può attribuire se non quello della volontà di potere assoluto e di esplicazione, al massimo livello, della violenza?
Orbene, collegando questa esemplificazione a quanto si è detto in questo Convegno a proposito del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, nella prima e seconda versione, riesce davvero impossibile pensare ad un fascismo “mite”, oppure occupato quasi per necessità politica a reprimere o contenere le varie forme di dissidenza. Il quadro che si delinea è di un fascismo che accompagna l’opera di convincimento, di persuasione e di propaganda per la conquista del consenso, ad un’opera barbarica di eliminazione, non solo di qualsiasi opposizione, ma anche di qualunque forma di “diversità” razziale o dovuta ad altre ragioni. Dunque, un regime occhiuto e repressivo, che non ha avuto nulla di mite e che invano si cerca di accreditare di una bonarietà, non solo inesistente, ma addirittura contraddittoria, in via di principio, con tutti i comportamenti descritti. C’è da chiedersi, semmai, come abbia potuto crearsi questa “leggenda” del fascismo “mite” e bonario. Ed anche in questo caso basterà qualche osservazione pur sommaria, anche per necessità di tempo. Il regime fascista, che voleva essere totalitario e totalizzante, soprattutto in nome di un capo indiscusso e indiscutibile, il Duce, aveva davanti a sé diverse strade possibili, dalla ricerca del consenso con alcuni atteggiamenti propagandistici, idonei anche a creare illusioni, fino alla repressione del dissenso. La scelta fu quella di battere tutte e due le strade, anche se potevano apparire, in qualche momento, contraddittorie.
Ma le origini erano state violente e non si smentirono mai, perché il consenso andava conquistato, ma senza fidarsi troppo e magari percorrendo qualche scorciatoia. Da ciò la necessità di cercare, in alcuni casi (e uno di questi è il Tribunale speciale), di salvare “almeno la forma”; e questo fu fatto, “garantendo” la difesa, ma poi facendo in modo che essa fosse irrilevante e non recasse in alcun modo disturbo. E la violenza, in mezzo alla propaganda (tema sul quale Mussolini era bravissimo), non fu mai abbandonata, ma fu sempre praticata, cercando di oscurarla (la stampa parlava pochissimo degli oppositori e perfino degli organismi di repressione). Confidava, il regime, non tanto e non solo nella forza della persuasione, ma anche nel carattere ammonitivo di alcune forme di violenza repressiva, non rese pubbliche, ma avendo la certezza che l’ammonimento sarebbe arrivato comunque a destinazione, per le vie “brevi” delle scarse parole e dei pochi commenti che pure ci si poteva permettere, in quel periodo. E la violenza caratterizzò tutto il periodo fascista, ma si acuì con le leggi razziali, con le regole particolari dello stato di guerra e poi con l’inasprimento nel sentore della sconfitta, quando la RSI cercò di intervenire in molti modi e non più con la persuasione, ma ormai con la violenza dichiarata e manifesta. Il “mito” della mitezza cominciò a crearsi quando si cercò di evitare le conseguenze punitive di una disfatta; per salvarsi, si cercò di valorizzare quei pochi episodi in cui il fascismo era riuscito a non assumere il volto feroce, esaltando qualche raro caso di protezione degli ebrei e qualche momento di modestissima “tolleranza”.
Ne nacque una campagna, fondata tutta anche sull’interesse personale dei protagonisti, e forse di altri, per motivi strettamente politici, che è inutile approfondire in questa sede, anche se non è difficile intuirli. All’operazione di rimozione si è poi associato anche qualche storico seguito da non pochi politici. Il resto, è responsabilità collettiva, dunque anche nostra, intendo di noi antifascisti e sostenitori della Resistenza come pagina straordinaria della storia nazionale. Ci siamo convinti che non fosse opportuno e utile infierire e che poi, disponendo di una Costituzione democratica e antifascista tutto sarebbe andato a posto. E invece non fu così, perché finirono per prevalere coloro che non volevano che si facessero i conti col nostro passato nazionale e che preferivano che prevalesse l’oblio. Sicché, si è parlato poco, non solo del fascismo come regime, ma del fascismo barbaro e violento.
Ci fu l’amnistia (discussa e discutibile) e ci fu una giurisprudenza scandalosa sulla sua applicazione ai fascisti colpevoli di efferatezze e torture; ci fu la ricollocazione di molti fascisti nei loro posti all’interno dello Stato, che – in questo modo – non è mai divenuto quella struttura democratica e antifascista che sarebbe stata logica conseguenza della uscita dalla dittatura, nella consapevolezza degli orrori e dei disastri da essa cagionati al Paese ed a tante persone e famiglie. Il risultato fu che anche quando si sentì, comunque, la necessità di far conoscere che cosa era stato il fascismo a chi non lo aveva vissuto e soprattutto ai giovani, le norme adottate non furono mai applicate e non lo sono tutt’ora. È il caso della legge 20 giugno 1952, n. 645 (conosciuta come “legge Scelba”) che all’art. 9, intitolato “Pubblicazioni sull’attività antidemocratica del fascismo”, disponeva che “la Presidenza del Consiglio bandisce concorsi per la compilazione di cronache dell’azione fascista […] allo scopo di far conoscere in forma obiettiva ai giovani e particolarmente ai giovani delle scuole […], (per i quali dovranno disporsi apposite pubblicazioni da adottare per l’insegnamento), l’attività antidemocratica del fascismo”. La disposizione era chiara e tuttavia non è stata mai applicata e non lo è tuttora.
Se così poco si è parlato del fascismo, anche da chi riteneva che sarebbe stato necessario e utile farne conoscere l’esperienza disastrosa e temibile, per creare gli antidoti perché nulla di simile potesse verificarsi per il futuro, a maggior ragione doveva diventare facile far passare la tesi del “fascismo mite”, confrontandolo con la barbarie tedesca, aumentando a dismisura i pochi squarci di luce verificatisi durante il fascismo e favorendo il silenzio perfino sull’opposizione antifascista, durante il ventennio e sulle sue sorti ( ovviamente per evitare di parlare della repressione e della violenza fascista).
Una tesi insostenibile, ma destinata comunque a sopravvivere se non si ha la forza di volontà di contrastarla, con adeguate conoscenze e con dimostrazioni precise, analitiche e documentate di quale sia stata la realtà. Di recente, alcuni storici hanno sostenuto che sull’ “oscuramento ” di quello che era stato il Regime fascista hanno influito anche altri interessi, da un lato quello di tacere sul largo consenso popolare di cui avrebbe usufruito il fascismo, e dall’altro quello di attribuire una definitiva legittimazione alle forze politiche che si erano impegnate nella Resistenza.
Non posso qui trattare questi assunti con l’ampiezza che meriterebbero. Mi limiterò a dire che si tratta di tesi che ritengo prive di un reale fondamento. Il discorso sul “consenso” degli italiani al regime fascista è complesso e non può essere risolto con generalizzazioni. Per evitare equivoci, dirò subito che il consenso c’è stato, fatto di servilismo e di codardia, ma anche di illusioni (il mito dell’uomo forte, del Paese che avrà finalmente le sue colonie ed i suoi sbocchi di lavoro, e così via), così come è vero che ci sono state le piazze piene perfino in occasione della disastrosa e luttuosa dichiarazione di guerra del giugno del 1940, accolta con applausi.
Ma bisogna guardarci dentro, a quel consenso, perché esso è complesso, come ho detto ed è fatto di molte componenti, di cui alcune lo rendono solo apparente ed altre sono il frutto proprio della violenza del regime e quindi non sarebbero ascrivibili ad un vero consenso. La mia esperienza famigliare mi è maestra, sotto questo profilo: a 9 anni, ho visto mio padre gettato in prigione, poi assolto per insufficienza di prove, dopo sei mesi di detenzione, per essere stato visto leggere un volantino antifascista passatogli da un collega, come una curiosità; non fu solo la tragedia di quei sei mesi con una famiglia rimasta sola, preoccupata e disperata; ma dopo ci fu il trasferimento d’ufficio (era un dipendente pubblico) ad una sede allora considerata punitiva, l’impedimento a qualsiasi sviluppo di carriera (che fu ricostruita solo nel 1946 quando era ormai troppo tardi, perché mio padre aveva dovuto per tanti anni provvedere con pochi mezzi ad una famiglia con tre figli).
Ma non basta; ho un ricordo che non viene e non verrà mai meno: mio padre costretto a partecipare al raduno di piazza per ascoltare, appunto, la dichiarazione di guerra e che poi, tornato a casa, si siede piangendo ( lui che – per carattere – teneva tutto dentro, anche i dolori dovuti agli eventi famigliari più tristi) e dice a mia madre: “siamo finiti, questa guerra distruggerà tutti, le persone e il Paese”. Metteremmo un caso simile nel contesto del consenso o lo lasceremmo quanto meno in quel limbo che sta fra gli antifascisti militanti e i veri consenzienti? Dunque, non c’era molto da nascondere e, semmai, ci sarebbe stato molto da approfondire, non escluse le spiegazioni e le motivazioni di quella quantità di consenso vero che pure ci fu; se non altro, si sarebbe potuto e dovuto approfondire dove fossero andati poi a finire tutti quei “consenzienti”, per capire se si fossero pentiti o avessero continuato, magari, ad occupare posti nella burocrazia, sottraendo lo Stato a quello sviluppo democratico che avrebbe dovuto avere.
Quanto alla “legittimazione” che avrebbero cercato alcune forze politiche, ho serissimi dubbi anche sulla fondatezza di questo assunto. Perché mai chi aveva combattuto per la libertà non avrebbe dovuto essere considerato tra la parte migliore del Paese? E perché mai ci sarebbe stato bisogno di una “legittimazione” visto che i partiti antifascisti avevano partecipato, con tutti gli altri, alla Costituente, il cui Presidente fu, addirittura, un comunista (Terracini)? Altri ancora fanno riferimento a un’eccessiva “mitizzazione” della Resistenza. Io non riesco bene a comprendere, in realtà, che cosa c’entrerebbe, questo, con la leggenda del fascismo “mite” e del bravo italiano.
In ogni caso, anche ammesso che vi sia stata una fase di eccessiva esaltazione della Resistenza (in qualche modo, anche imposta dalla necessità di rispondere agli insistenti tentativi dei revisionisti e negazionisti di negarne la consistenza ed agli sforzi per ridurre almeno una parte dei resistenti al livello di delinquenti comuni (basta pensare ai processi contro i partigiani, degli anni cinquanta), quella fase si è conclusa piuttosto presto, passando ad una visione più oggettiva, delle luci e delle ombre di un fenomeno così rilevante per la storia patria, ad una valorizzazione della “normalità” delle scelte resistenziali, collegata – peraltro – alla pretesa più che fondata che cessassero gli attacchi, che invece tuttora perdurano.
La verità è che questo Paese ha trovato e trova ancora difficoltà a ritrovarsi attorno ad una memoria se non propriamente condivisa, quantomeno collettiva. Per raggiungere la quale è necessario, da un lato, arrivare a far conoscere tutta la verità sul fascismo e sul suo carattere autoritario, totalitario e violento, dall’altro, pretendere che cessi ogni forma di denigrazione dell’antifascismo e della Resistenza , in nome – anche in questo caso – della verità storica. Un paese civile avrebbe dovuto raggiungere questi punti fermi (i connotati del fascismo e il valore dell’antifascismo e della Resistenza) da molto tempo; ma può ancora farcela e deve farlo, se si vuole arrivare, non ad una “pacificazione”, impossibile come tale, ma ad una memoria collettiva, fondata sulla realtà storica e sulla fedeltà alla reale consistenza dei fatti. Forse non è tardi.
Ma bisogna mettercela tutta, a partire dalle scuole ( e non solo da quelle), per chiuderla con le ” leggende ” inaccettabili ( il fascismo “mite”) e con visioni distorte e riduttive dell’antifascismo e della Resistenza. Oggi, con questa riflessione a più voci sul Tribunale speciale per la difesa dello Stato, abbiamo posto un tassello importante sulla via della conoscenza e della verità; ma abbiamo fatto anche di più, abbiamo cercato di dimostrare che non si trattò di una vicenda (pur tragica) limitata alla natura ed ai comportamenti di un organismo creato per reprimere il dissenso, ma di una delle tante manifestazioni del carattere, prima ancora che autoritario, violento del fascismo; da un lato colmando una lacuna sotto il profilo della conoscenza storica e dall’altro, recando un contributo, spero apprezzabile, alla demolizione di una leggenda non nata dal silenzio delle nevi, come le leggende nordiche, ma inventata e sostenuta da interessi poco commendevoli, come quella di un fascismo sostanzialmente “mite” e bonario, laddove si trattò invece di un fenomeno drammatico e tragico, fondato anche e soprattutto sulla violenza.
Questo testo è stato pubblicato sul sito dell’Anpi