Confucio, un'icona controversa sullo sfondo del soft power cinese

7 Novembre 2014 /

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Kampung Cina II - Foto di Fadzly Mubin
Kampung Cina II - Foto di Fadzly Mubin
di Amina Crisma
In questa fase così densa di risonanze simboliche per la Repubblica Popolare Cinese della quale il primo ottobre ricorreva il 65° anniversario di fondazione, e mentre il movimento degli studenti a Hong Kong si faceva interprete di una domanda non sopita di democrazia, la controversa questione del cosiddetto soft power cinese, da tempo oggetto di dibattiti vivaci, è tornata alla ribalta. L’ha proposta all’attenzione dalle pagine de Il Sole 24 ore del 12 ottobre Maurizio Scarpari, autorevole sinologo dell’Università di Venezia, con specifico riferimento al discusso ruolo degli oltre 400 Istituti Confucio, sorti dieci anni fa e ormai ovunque diffusi, a cui il governo della RPC ha affidato il compito di ambasciatori culturali della Cina nel mondo. Sono molti i loro convinti fautori, ma non mancano le voci critiche che ne paventano il condizionamento della libertà di dibattito e di ricerca nelle università da cui sono ospitati; nella stessa Cina, d’altronde, non tutti plaudono a questa strategia culturale “imperiale” – e v’è chi preferirebbe che le ingenti risorse che vi sono profuse fossero destinate all’interno, all’espansione dell’istruzione nelle aree povere del Paese, e a maggiori tutele delle lingue minoritarie.
Non meno discusso del “confucianesimo di stato” è il “nuovo confucianesimo contemporaneo” che appare essere il mainstream fra gli intellettuali cinesi d’oggi, e di cui Tu Weiming, uno dei suoi esponenti più celebri e prestigiosi, offre una suggestiva rappresentazione nell’intervista a firma di Luca Maria Scarantino, sempre su Il sole 24 ore del 12 ottobre. Sulla sua natura e sulle sue caratteristiche fervono le dispute, e ci si interroga, ad esempio, se si tratti di un movimento intellettuale autenticamente creativo oppure di una fittizia “reinvenzione della tradizione” funzionale alle esigenze del soft power.

A queste domande non sono possibili, ovviamente, risposte affrettate. Ciò che è in ogni caso palese è la riconquistata centralità sulla scena pubblica dell’icona di Confucio, che è fatta oggetto di solenni liturgie e che è divenuta il fulcro di una sorta di religione civile. Conviene a ogni buon conto precisare che questa tendenza, benché egemone, non appare incontrastata, come attesta la singolare vicenda dell’installazione della statua del Maestro presso Tian Anmen nel 2011: collocata con grande clamore mediatico nel cuore simbolico della capitale, essa fu tacitamente rimossa qualche mese dopo, senza alcuna spiegazione ufficiale. Un episodio tutto sommato circoscritto, comunque, in un crescendo di glorificazione che sembra sostanzialmente procedere senza intoppi.
Chi l’avrebbe mai detto, anche soltanto quarant’anni fa. Quella che oggi costituisce la venerata immagine della sinità per antonomasia è stata, durante la maggior parte del secolo scorso, il bersaglio delle critiche più feroci. È un paradossale omaggio che le viene reso, in una sorta di amnesia delle pagine della storia più recente, e si può così costruire una narrazione epica e “armoniosa” incentrata sulla continuità e sull’unità, ignara di cesure, di lacerazioni, di contrasti.
Nell’icona di Confucio si proietta così l’orgogliosa espressione di una grande potenza in espansione, consapevole di sé e della propria forza, fiera della propria civiltà millenaria e proiettata verso il futuro: una monumentalità imponente che incute soggezione, e che certo ben riflette rilevanti dinamiche in atto nel nostro mondo presente.
Ma fra quest’immagine magniloquente del Maestro e quella che ci trasmettono le fonti più antiche, si può constatare una dissonanza singolare. Nei Dialoghi di Confucio non si trova mai nulla di altisonante; il tono dei suoi discorsi appare sempre alquanto sommesso. Vi si trovano notissimi enunciati sul dovere di obbedienza, e sul rispetto dell’autorità e della gerarchia, ma anche inequivocabili affermazioni di fraternità universale, e il senso dell’umanità e la mansuetudine sono termini ampiamente ricorrenti. Vi compaiono anche sorprendenti formulazioni sulle quali si è storicamente fondato nella tradizione cinese il dovere di rimostranza nei confronti del potere sovrano: un dovere esercitato a prezzo di enormi rischi, talora anche a costo della vita, da innumerevoli funzionari nell’età imperiale.
“Zilu domandò in qual modo si dovesse servire il sovrano. Il Maestro rispose: ‘Non lo ingannerai, e dunque a lui anche ti opporrai” (XIV, 22).
L’obbedienza prescritta da Confucio non è dunque conformismo inerte o prona acquiescenza, bensì conformità a una norma sovrana di umanità e di giustizia che sta al di sopra di qualsivoglia potere costituito. Nel caso che quest’ultimo la violi, è, nelle sue parole, non un diritto, ma un dovere opporsi. Ed è questo, mi sembra, piuttosto dell’apologia di un’ “armonia totalitaria”, l’insegnamento confuciano che risulta forse, sotto ogni latitudine, oggi più attuale.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 25 ottobre 2014

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