di Carlo Formenti
Il capitalismo? Finito, almeno nella forma che aveva assunto nell’era industriale. A emettere la sentenza non è un neo marxista radicale che, con la crisi, vede finalmente approssimarsi il “crollo” dell’odiato nemico, né un economista che annuncia l’irreversibile transizione dall’era del capitale industriale a quella del capitale finanziario. L’autore del vaticinio, pubblicizzato da un articolo dell’Huffington Post è Don Tapscott, noto tecnoentusiasta e apologeta della rivoluzione digitale, nonché coinventore di concetti come intelligenza collettiva, innovazione collaborativa, crowd sourcing (la potenza produttiva delle folle interconnesse via internet), ecc.
Di questo signore, come di altri profeti del paradiso digitale a venire, mi sono occupato in un libro di tre anni fa (“Felici e sfruttati”, Egea Editore) nel quale dimostravo come dietro le loro tesi sulla “socializzazione” di massa di produzione e consumo, si nasconda la realtà di un capitalismo di nuovo tipo, fondato sullo sfruttamento del lavoro gratuito di milioni di prosumer; e come la rapida crescita del settore in cui questa nuova forma di sfruttamento è più radicata (cioè la cosiddetta economia digitale), sia uno dei più potenti propulsori della finanziarizzazione dell’economia, dell’economia del debito, dell’aumento della disuguaglianza e del super sfruttamento della forza lavoro.
Ora Tapscott torna alla carica affermando che, se il termine non fosse stato “bruciato” dal marxismo, la parola socialismo sarebbe la sola adatta a descrivere il Capitalismo 2.0 che sta crescendo sotto i nostri occhi. Citando le preoccupazioni crescenti per i devastanti effetti economici, politici e sociali per la crescita della disuguaglianza espresse da economisti come Piketty, dalla nuova presidentessa della Federal Reserve americana, nonché da molti capitalisti “illuminati” e da testate al di sopra di ogni sospetto come l’Economist e il Financial Time, Tapscott sostiene che causa di tutto ciò sono i “vecchi” capitalisti che si ostinano a condurre i loro affari inseguendo i profitti immediati e ignorando i vantaggi che un’economia più “verde”, immateriale e “social” potrebbe arrecare al mondo intero e a loro stessi.
Non si tratta – Dio non voglia! – di ripudiare il mercato, la proprietà privata o di abbandonare il “sano” principio di uno Stato sempre più “minimo” e lontano dal perseguire velleitari progetti “dirigisti”. Basterebbe semplicemente assecondare l’onda spontanea dell’innovazione che monta irreversibile dalle nuove generazioni impegnate a cambiare il mondo attraverso social networking, social business, social government, social entertainment e “social tutto”.
Smontare queste tesi è fin troppo facile (l’ho già fatto in varie occasioni). Qui mi limito a osservare quale splendida accoglienza avrebbe ricevuto Dan Tapscott se avesse partecipato a quell’orgia di peana all’innovazione che si è alzata nei giorni scorsi alla Leopolda. Da quando è andato in pellegrinaggio a Silicon Valley, Matteo Renzi non ha smesso un solo minuto di celebrare le magnifiche sorti e progressive che attenderebbero un’Italia finalmente capace di incamminarsi a sua volta sulla strada della rivoluzione digitale.
I giovani che ha chiamato a raccolta con lo slogan “qui ci sono le persone che creano lavoro”, e che ha illuso sulla possibilità di costruire dal basso un’economia sociale e cooperativa in cui diventerebbero tutti “imprenditori di se stessi”, vengono così mobilitati contro la resistenza dei “nostalgici” che ostacolano l’innovazione; con la differenza che il bersaglio indicato da Renzi – che rivela così il suo cuore di destra – non sono i vecchi capitalisti bensì i vecchi operai, i milioni di persone che mentre lui raccoglieva gli applausi del ceto medio emergente alla Leopolda, marciavano a Roma contro precarietà, flessibilità, salari da fame, disoccupazione, sotto occupazione. Manifestavano perché sanno che l’innovazione renziana, esattamente come quella celebrata da Tapscott, peggiorerà ulteriormente le loro condizioni, senza regalare il roseo futuro che viene promesso alle giovani generazioni.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito ValoreLavoro.com il 28 ottobre 2014