di Vincenzo Comito
Quello della progressiva liquidazione dei grandi gruppi nazionali è uno dei capitoli più tristi della nostra storia economica del dopoguerra. Da una cinquantina d’anni – ormai – si registra una fragilità strutturale del sistema dell’impresa italiana di rilevanti dimensioni. Già negli anni ’60 le grandi strutture imprenditoriali erano relativamente poche rispetto agli altri grandi paesi europei ed anche a qualcuno più piccolo ed esse si presentavano anche come in media più deboli sul fronte dei mercati, nonché su quelli organizzativo e finanziario. Da allora in poi la situazione si è molto aggravata. Sono scomparse alcune delle strutture più importanti, dall’Olivetti, alla Montedison, al gruppo Ferruzzi, mentre altre si sono indebolite; si pensi cosa ha significato su questo fronte il processo di privatizzazione delle imprese pubbliche. Più di recente la crisi ha funzionato da cartina di tornasole di una situazione già sostanzialmente compromessa.
Oggi ci troviamo di fronte ad una vera e propria debacle nella capacità del nostro paese di governare imprese e progetti complessi; la specializzazione produttiva della nostra economia è rimasta la stessa di qualche decennio fa, cioè fortemente orientata ai settori più maturi, a bassa e medio-bassa tecnologia; inoltre le imprese soffrono di inadeguata internazionalizzazione e debole capitalizzazione. In tale corpo gravemente debilitato si inserisce il capitale straniero per fare shopping a buon mercato.
Sono da tempo note le ragioni principali di tali debolezze. Intanto la classe proprietaria, abituata in passato, tra l’altro, a contare su mercati controllati e su provvidenze pubbliche, ha nella gran parte dei casi l’abitudine di fuggire dai rischi e di evitare i progetti impegnativi. Essa comunque oggi non ha, nella gran parte dei casi, le risorse umane, finanziarie, strategiche necessarie per reggere i mercati. Il settore finanziario non ha mai fatto una selezione della distribuzione delle risorse secondo la qualità delle imprese e dei progetti, ma ha distribuito denaro a pioggia o sulla base dei rapporti politici e relazionali di sistema.
In tale ambito l’esperienza di Mediobanca si è rivelata alla fine come deleteria, volta più a tenere in sella le grandi famiglie piuttosto che a portare avanti lo sviluppo delle imprese. Infine ricordiamo una classe politica sempre priva di idee, in assenza di qualsiasi linea strategica, interessata al tornaconto particolare del momento, trascurando qualsiasi linea di politica industriale. Non vale la pena di fare l’elenco delle imprese che negli ultimi anni sono passate sotto il capitale straniero o che rischiano di farlo nei prossimi mesi. Vogliamo qui di seguito presentare soltanto tre casi abbastanza rappresentativi, l’Ilva, l’Alitalia, Telecom Italia, non a caso esempi di ex imprese pubbliche rovinosamente privatizzate.
Peraltro ricordiamo che in un mercato globalizzato potrebbe essere anche plausibile seguire la strategia della Gran Bretagna, che ha sempre tenuto aperte le porte alla conquista delle sue imprese da parte del capitale straniero; ma mentre nel caso citato si registra anche la presenza di molte grandi imprese nazionali che si sviluppano fortemente all’estero e acquistano aziende degli altri paesi, nel nostro caso la reciprocità appare praticamente assente, mentre molto carente appare la volontà dei nostri governi di tutelare comunque gli interessi nazionali.
L’Ilva
Sul caso Ilva, azienda svenduta a suo tempo a dei privati a dir poco avventurosi, si sono diffusi diversi equivoci. Il primo è quello di credere che ci sia una contrapposizione inevitabile tra lavoro e salute, cosa che impianti «puliti» sparsi in tutto il mondo mostrano come un fatto non necessario. Il secondo è quello di pensare che in un paese avanzato come l’Italia non sia più possibile produrre acciaio, cosa smentita dal fatto che la Germania possiede una forte industria nel settore. Un terzo equivoco, infine, è quello di valutare che quella dell’Ilva sia soltanto una questione di inquinamento, tema peraltro scandalosamente ancora non affrontato pienamente dall’azienda e dal governo. In realtà si intravede una sostanziale incapacità strategica, organizzativa, finanziaria di stare su di un mercato sempre più competitivo. Oggi ci ritroviamo con una situazione drammatica, con l’azienda in forte perdita e senza risorse. Si starebbe pensando da parte del governo di cedere l’impianto al capitale straniero, affidando poi a una qualche compagnia italiana il ruolo di foglia di fico per nascondere l’abbandono totale di ogni velleità di pensare seriamente al futuro dell’impianto, all’interesse nazionale e al mantenimento dei livelli occupazionali; si pensi che, tra l’altro, sembra che si cerchi di mantenere nella compagine azionaria futura la famiglia Riva. Il governo starebbe puntando su di una società indiana, la Arcelor Mittal, che è già presente in forza in Europa con una capacità produttiva in esubero e che presumibilmente interverrebbe nell’Ilva soltanto per evitare che altri se ne impossessino, progettando probabilmente di tagliare le dimensioni del complesso e l’occupazione. Bisognerebbe, invece, da una parte assicurare una forte presenza nazionale nell’impianto, cosa che il capitale privato non è in grado di fare, attraverso magari la Cassa Depositi e Prestiti o direttamente attraverso il Tesoro, dall’altra cercare di scegliere tra i possibili contendenti stranieri quello che desse le migliori garanzie di lungo termine.
L’Alitalia
Probabilmente l’Alitalia è stata per molte decine di anni l’impresa pubblica peggio gestita del gruppo Iri. La forte invadenza del malaffare politico si accoppiava ad un management complice e incapace di rovesciare una situazione disastrata. Ad un certo punto il quadro non ha più retto; abbiamo avuto così prima delle difficoltà varie, successivamente il grottesco intervento di Berlusconi e dei «capitani coraggiosi». Dimostrata poi l’indisponibilità di una qualche seria cordata italiana capace di sollevare le sorti del complesso, ci si è fortunosamente e all’ultimo minuto affidati ad un gruppo arabo che sembra in grado di pilotare la società fuori dalla crisi. Speriamo ora che i rappresentanti italiani nel capitale siano in grado di garantire la tutela di alcuni interessi nazionali di base.
Telecom Italia
Il capitolo della Telecom Italia non appare meno triste degli altri due e, come nel caso dell’Ilva, siamo ancora oggi lontani da uno stabile assetto proprietario. Le tristi vicende del gruppo, dal momento della privatizzazione in poi, hanno comportato una perdita di posizioni sui mercati, il tramonto di opportunità rilevanti di sviluppo, l’umiliazione infine delle capacità tecnologiche di un’azienda che al momento della privatizzazione possedeva ancora molte importanti competenze. La società viene privatizzata nel 1997; essa passa sotto il controllo degli Agnelli, poi della cordata Colaninno, che, a detta dei politici di allora, avrebbe dovuto portare un soffio di aria nuova nell’economia italiana. Colaninno indebita la società per prenderne il controllo e lo stesso farà poi, aggravando la situazione, Tronchetti Provera. Il tutto con il sostegno convinto di Mediobanca. Poi nel 2007 si forma un’altra cordata in cui entra in posizione preminente la spagnola Telefonica, che cerca, senza successo, di prenderne il controllo stabile. Ma la società, che nel frattempo si trova in una situazione economica e finanziaria abbastanza precaria, è ora al centro di nuovi intrighi, in cui il gruppo francese Bollorè, forse in alleanza con Berlusconi, cerca di impadronirsi del gruppo, in un gioco di scambi politici oscuri con il governo e con altri protagonisti del quadro. Solo un forte intervento del capitale pubblico, oltre a un socio straniero, potrebbe rilanciare un’impresa allo sbando. Intanto l’Italia si trova indietro nella diffusione della banda larga, infrastruttura ormai da tempo indispensabile per lo sviluppo del paese.
Conclusioni
Nell’ultimo anno non è passata quasi nessuna settimana senza qualche annuncio di grandi e medio-grandi imprese italiane in vendita. Quasi mai a comprare c’è un altro gruppo nazionale, mentre, tra l’altro, sono sempre più numerosi e attenti i capitali provenienti dai paesi arabi e da quelli asiatici, con Cina ed India in prima fila. Preoccupa da una parte la depressione del sistema imprenditoriale italiano di cui tali vicende sono segno, dall’altra la totale inerzia del governo, che interviene di solito il più tardi possibile e normalmente soltanto per avvallare le casuali scelte private. Non c’è nessuno sforzo di elaborare una strategia di attacco, di mettere in ogni caso in campo delle politiche di lunga lena atte a rovesciare la situazione.
Questo articolo è stato pubblicato su Sbilanciamoci.info il 24 ottobre 2014