Non basta la nostalgia dell'Iri, oggi la dimensione economica è europea

13 Dicembre 2019 /

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di Alfonso Gianni
Non si vive solo di sardine, ma meno male che ci sono. Le operaie e gli operai tornano a popolare le piazze. Cosa che stupisce solo chi pensava che non esistessero più. Dall’ex Ilva, da Almaviva, da Alitalia, da Whirpool, da Bosch, solo per citare alcuni luoghi di lavoro in crisi, in molti sono arrivati nella capitale per protestare contro la “desertificazione industriale”.
I rapporti dell’Onu, quanto quelli della Ue hanno spietatamente registrato la contrazione di almeno un quarto della produzione industriale italiana dal 2007 ad oggi. Le valutazioni dell’Istat hanno documentato nello scorso novembre la settima flessione produttiva consecutiva e prevedono per fine anno una diminuzione del 2,4%. Al Mise sono aperti 160 tavoli sulle crisi industriali, oltre 250mila lavoratori coinvolti, ma non se ne chiude uno.
Dopo sei anni di riduzione delle ore di cassa integrazione, i primi dieci mesi del 2019 hanno fatto segnare una totale inversione di tendenza: +18,30%, con una media di oltre 20 milioni di ore mese. È come se si fosse registrata un’assenza completa di attività produttiva per oltre 121.800 lavoratori, mentre i “tutelati” dall’ammortizzatore sociale hanno visto crollare il loro reddito per complessivi 878 milioni di euro.
Se andiamo più indietro nel tempo, quando arrivò la grande ondata delle privatizzazioni, scopriamo che dal 1993 ad oggi sono spariti circa 700mila posti di lavoro. Si sono rivelate profetiche le parole che Luciano Gallino scrisse nel 2003: “La settima economia del mondo – cioè quella italiana – pare essere diventata un nano industriale”. Ma, come nel più classico dei casi, non sono state ascoltate. E Landini può ben gridare nel comizio di ieri che “Né i governi di destra né quelli di sinistra hanno fatto la politica industriale di cui abbiamo bisogno”.
Le crisi industriali colpiscono quasi tutti i settori e la situazione è grama anche a livello internazionale. Per l’Ocse il 2019 sarà l’anno a minor crescita media globale dalla grande crisi. In Europa la locomotiva tedesca è in piena marcia indietro. Di fronte ad un quadro così disastrato non bastano qualche investimento pubblico e privato; l’allargamento degli ammortizzatori sociali; gli sgravi fiscali; un’innovazione che tutti reclamano ma che funziona solo in senso, quello della profittabilità degli scarsi investimenti; l’ormai retorico richiamo a Industria 4.0, un progetto in realtà pensato per la struttura produttiva tedesca che vuole mantenere la supremazia competitiva internazionale della Germania nell’eccellenza tecnologica e si basa sul rafforzamento del suo sistema partecipativo-corporativo; o pallidi accenni a una non meglio precisata green economy.
Serve un altro ritorno in termini innovati: quello dello Stato imprenditore che non può essere invocato occasionalmente quando si aprono le voragini delle crisi industriali e occupazionali. Al contrario deve essere il pilastro portante di una conversione ecologica dell’economia. Serve quindi un piano, va messa in atto una programmazione economico-industriale, un termine che il neoliberismo ha tacciato di sovietismo d’antan, salvo poi utilizzare la mano dello Stato per i propri comodi.
La situazione non è certamente quella del 1962, quando nella sua famosa “nota aggiuntiva” Ugo La Malfa, nel declinare di quello che fu il miracolo economico mai più raggiunto, metteva il dito sulla piaga degli squilibri, regionali, settoriali e sociali che quella stagione di sviluppo aveva portato con sé e tacciava di insufficienza l’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Ora la situazione è più complicata data la maggiore integrazione internazionale della nostra economia e gli stringenti vincoli europei. Ma questo significa che una moderna programmazione ne deve tenere conto, non che essa sia impossibile. Questo richiede la (ri)costruzione di strumenti operativi adatti alle nuove condizioni.
Non basta la nostalgia dell’Iri, anche se diventa sempre più forte. C’è bisogno di una visione almeno europea. Il padronato già si muove in questa direzione, come dimostra la dichiarazione congiunta dei primi di dicembre fra Confindustria, i tedeschi di Bdi e i francesi di Medef. Langue invece l’iniziativa del sindacato a livello europeo. Né si può dire che l’unità sindacale da noi abbia fatto grandi passi in avanti, visto che quando si scende nel concreto la segretaria della Cisl reclama l’applicazione del decreto sblocca-cantieri che la Cgil aveva nomato sblocca-porcate.
Landini ha chiesto un progetto condiviso fra padronato, governo e sindacati ricevendo un’apertura di credito da Conte. È una sfida grande e per questo pericolosa. Ciò che la separa dalla riedizione di infauste pratiche concertative è la capacità di rendere protagonista il conflitto sociale, in tutte le sue articolazioni.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto l’11 dicembre 2019

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