Dossier "Articolo 18": l'incredibile paradosso della legge delega

9 Ottobre 2014 /

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Articolo 18
Articolo 18
di Luigi Mariucci
Sulla legge delega lavoro si sta svolgendo un incredibile paradosso. Nel testo attuale all’esame del Senato non vi è alcuna traccia del riferimento a modifiche dell’articolo 18 né per i nuovi assunti né, tanto meno, per i lavoratori già occupati. Appare quindi ovvio che se Renzi vuole recepire il contenuto dell’odg approvato dalla direzione del PD deve presentare un emendamento. Senonché la componente di destra del governo (Nuovo centrodestra e Scelta civica) sostiene che la legge delega va approvata così com’è perché il suo contenuto generico consentirebbe al governo di agire a piacimento in sede di decreti delegati: il che è l’esatto contrario di quanto prevede la costituzione la quale ovviamente subordina la delega di poteri legislativi al governo alla definizione di ben chiari “principi e criteri direttivi”.
Per la costituzione non può esistere una “delega in bianco”, anzi una delega a doppio senso dato che gli stessi proponenti ne danno interpretazioni di segno opposto. Ma questo pare lasciare del tutto indifferente una parte della componente di governo. Costoro sembrano pensare che quello che conta non è il dato della legalità formale ma quello sostanziale: si porta a casa il risultato “politico”, lo sfondamento culturale per cui si vuole tradurre in senso comune l’ignobile parallelo tra articolo 18 e apartheid, per poi agitare davanti alla commissione europea la bandiera della “riforma strutturale”. Pazienza, se poi tra qualche anno la Corte costituzionale dovesse dichiarare l’incostituzionalità dei decreti legislativi adottati in assenza di delega: la cosa sarà ormai andata in cavalleria e comunque si potrà sempre prendersela con l’invadenza dei giudici.

In questa condizione a chi dissente da una operazione così disinvolta, e persino provocatoria, si pone un dilemma. È evidente che non si può votare una delega in bianco, già suscettibile in partenza di interpretazioni tanto divergenti. Ma se poi arriva l’emendamento del governo si cade dalla padella nella brace: quell’emendamento infatti presumibilmente prevederà che anche i licenziamenti economici “manifestamente infondati” devono essere monetizzati, togliendo al giudice la possibilità di ordinare la reintegra, con buona pace della nullità degli atti fraudolenti sanciti dallo stesso diritto comune; e che per i licenziamenti disciplinari in cui il motivo addotto è “insussistente” la reintegra possa essere disposta solo per specifici casi tassativamente stabiliti, in spregio del fatto che l’universo empirico può essere descritto in via solo esemplificativa, come dimostrano decenni di regolamentazione contrattuale in materia di provvedimenti disciplinari. È evidente quindi che si dovrebbe votare no anche contro un tale emendamento, considerato che appare difficile opporre il vincolo di maggioranza su un così repentino cambio di linea, poichè nella fase delle primarie-congresso del PD e fino a poche settimane fa lo stesso segretario PD-presidente del Consiglio dichiarava che “l’articolo 18 non è un problema”.
Resta da considerare l’ultima ipotesi di cui si parla in queste ore: il voto di fiducia imposto dal governo, non si sa se sulla versione attuale della delega a “doppio senso” o su un ipotetico emendamento. Situazione ardua, a cui si stenta a credere poiché non risultano precedenti di voti di fiducia chiesti su leggi delega in prima lettura e su argomenti così rilevanti e sensibili. Ci si può consolare dicendo che poi ci sarà la seconda lettura alla Camera, che difficilmente vorrà mettere solo il timbro sul testo ricevuto dal Senato, e infine la firma del presidente della Repubblica il quale a suo tempo rifiutò di sottoscrivere una legge in tema di lavoro voluta dalla maggioranza berlusconiana. Erano altri tempi, ma si deve sperare che ci sia ancora “un giudice a Berlino”.

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