di Felice Roberto Pizzuti
La politica economica del governo Renzi è caratterizzata da manovre illusionistiche o di distrazione di massa rispetto ai problemi drammaticamente concreti posti dalla più grave crisi mai attraversata dal nostro paese; la quale viene affrontata con interventi che, nella migliore tradizione gattopardesca, promettono un “cambiamento di verso”, ma nei fatti accettano e confermano, perfino con “più realismo del re”, la visione economica e politica che sta alimentando il nostro declino peraltro iniziato già all’inizio degli anni ’90.
Il primo intervento, tramite decreto, fu – nella scorsa primavera – l’aumento della flessibilità nel mercato del lavoro che incentivava il ricorso delle aziende ai contratti a tempo determinato, consentendoli senza una ragione specifica (prima necessaria), per una durata estesa fino a 36 mesi, ma con la possibilità di essere rinnovati o meno, senza causa, fino a 5 volte nel periodo. Si accentuava così la precarizzazione dell’occupazione e si scaricava l’incertezza economica dalle imprese ai lavoratori; soprattutto, si stimolavano ancor più le imprese a cercare la competitività nella riduzione dei costi salariali e non in investimenti innovativi che, invece, si associano ad una forza lavoro specializzata e stabilmente impiegata.
Contemporaneamente, si riducevano le possibilità d’investimenti pubblici, che anche in paesi come gli USA sono l’asse portante dell’innovazione. In previsione delle vicine elezioni europee si decisero anche i famosi 80 euro in busta paga, sbandierati come misura redistributiva e di sostegno alla domanda. Quelle misure furono anche accreditate di aumentare la crescita del PIL stimata ufficialmente dello 0,7% nel 2014.
Tuttavia, su queste stesse colonne si fece subito notare che proprio il contemporaneo aumento della precarietà contrattuale, l’effetto controproducente sulla disoccupazione (che infatti è aumentata) e il conseguente ulteriore indebolimento del potere negoziale dei lavoratori avrebbero favorito la traslazione di quegli sgravi contributivi a favore delle imprese; l’aumento nell’immediato delle buste paga era ed è destinato ad essere progressivamente riassorbito dalle imprese in corrispondenza ai rinnovi dei contratti individuali a tempo determinato resi possibili ogni 5-6 mesi.
Si tratta del ben noto fenomeno della traslazione delle imposte o degli sgravi fiscali che penalizzano o premiano non necessariamente le figure formalmente interessate dai provvedimenti, ma quelle che in quella situazione sono meno o più forti nei rapporti di mercato e contrattuali. A riprova che la cosiddetta flessibilità è un modo indiretto di ridurre i salari, ma con essi calano anche l’entità e la stabilità della domanda, della crescita e dell’occupazione. Infatti, a distanza di pochi mesi, i consumi, la produzione e il PIL sono ulteriormente diminuiti e per il 2014 la crescita prevista è scesa di oltre un punto percentuale, diventando negativa per il terzo anno consecutivo. Con queste politiche – riproposte dal governo Renzi – la crisi si è aggravata come in pochi altri paesi; dal suo inizio abbiamo perso circa il 10% del PIL e un quarto della nostra produzione industriale, mentre la disoccupazione è raddoppiata.
Ma, peggio ancora, è diminuito il nostro PIL potenziale e più generazioni di oramai ex giovani non hanno mai lavorato, con effetti economici e sociali disastrosi che si estendono al lungo periodo. In circostanze come queste si capisce bene l’utilità politica di “distrarre l’attenzione” dell’opinione pubblica e, magari, di presentarsi come “innovatori” spostando l’attenzione nazionale prima sulla riforma costituzionale del Senato e adesso sull’abolizione dell’articolo 18 con la quale procede il percorso iniziato con le misure di flessibilità prese in primavera. A queste si aggiungerà la nuova legge finanziaria che, in linea con la politica suicida imposta dalla Commissione europea – tanto contestata a parole quanto accettata supinamente nei fatti – imporrà ulteriori tagli di bilancio di almeno 20-25 miliardi di euro.
E per ammantare gli effetti nefasti di queste politiche (tra i tagli ai ministeri, in quello della sanità si ridurranno le spese di ricerca e per i controlli agroalimentari) si preannunciano altri interventi illusionistici come la proposta di mettere in busta paga il 50% del trattamento di fine rapporto (TFR) che avrebbe effetti deleteri sia sulla distribuzione del reddito sia sulla crescita. L’aumento in busta paga generato dalla disponibilità immediata di parte del TFR sarà soggetto alle stesse prospettive di traslazione sfavorevoli ai lavoratori generate dall’accentuarsi della crisi e dalla sua gestione politicamente e socialmente regressiva. Il TFR è salario differito forzosamente risparmiato dai lavoratori per poter corrispondere alle necessità che si pongono con il venir meno del rapporto di lavoro.
Metterlo in busta paga in una condizione economica, sociale e politica come quella attuale – da cui non si intravede via d’uscita – implica una corrispondente riduzione prospettica non solo dei salari, ma anche delle capacità previdenziali dei lavoratori già seriamente compromesse sia dalle deleterie riforme pensionistiche e del mercato del lavoro sia dall’inadeguatezza degli ammortizzatori sociali. Allo stesso tempo, la sottrazione del TFR alla disponibilità delle piccole e medie imprese, quelle più colpite dal taglio del credito, aggiungerà ulteriori problemi al nostro sistema produttivo. Riuscirà ancora il governo Renzi ad ammaliare il Paese con i suoi giochi di prestigio?