di Pier Luigi Sacco
Secondo la grande immaginazione poetica di John Donne, nessun uomo è un’isola. Eppure, l’antropologia soggiacente al modello di capitalismo di mercato che è stato il riferimento permanente e per certi versi indiscutibile dei modelli e delle strategie di crescita economica degli ultimi cinquant’anni si basa proprio su questo principio: che tutti gli esseri umani siano in ultima analisi “isole”, ovvero soggetti razionalmente focalizzati sul perseguimento di propri interessi personali, auto-centrati e auto-riferiti, e che le relazioni tra esseri umani siano conseguentemente guidate da una razionalità strumentale al perseguimento di tali interessi.
Le relazioni, in altre parole, non hanno significato in sé, ma soltanto nella misura in cui ci permettono di soddisfare i nostri interessi e perseguire gli scopi ad essi legati. Nelle sue forme più estreme, questo approccio antropologico ha provato a spiegare tutte le forme di relazione umana, e tutti i modelli di organizzazione sociale che questa ha generato, come risultato di scelte ottimizzanti di soggetti razionali auto-interessati. Ricondurre il mondo delle relazioni sociali alla dimensione del comportamento auto-interessato ha una valenza descrittiva, ma anche più o meno implicitamente normativa: se il senso della relazione è strumentale, chiunque ricerchi nella relazione stessa una valenza non-strumentale è un ingenuo, un idealista, ed è quindi destinato ad essere amaramente disilluso.
Nel suo L’ape e la locusta, Geoff Mulgan porta una critica radicale a questo approccio, argomentando come non solo il futuro, ma sempre più anche il presente delle nostre società e delle nostre economie sia animato al contrario da una centralità sempre più pervasiva ed evidente della relazione come motore ed elemento di valore delle nostre scelte. Mulgan rilegge la vicenda della formazione e dell’evoluzione del capitalismo moderno in termini di una dialettica tra creazione e predazione, ovvero tra la logica dell’ape e quella della locusta: vedere cioè la complessità delle relazioni umane come risorsa fondamentale per la produzione di valore e di significato, oppure come terreno di caccia per l’opportunismo razionale.
Per Mulgan, molte delle più evidenti contraddizioni del capitalismo maturo sono riconducibili proprio all’istituzionalizzazione dei comportamenti predatori come «conseguenza naturale» dell’antropologia dell’auto-interesse, a cui però inizia a contrapporsi in modo sempre più evidente una modalità di funzionamento alternativa centrata su forme complesse di cooperazione sociale non soltanto dal punto di vista delle strategie per ottenere determinati obiettivi, ma anche e soprattutto dal punto di vista della natura degli obiettivi stessi: il fare insieme, il condividere il senso di una narrazione collettiva come dimensione centrale del «ben vivere». Mulgan non è interessato a dipingere un affresco utopico, e non a caso dedica una parte consistente del suo libro ad un’analisi critica delle più celebri utopie sociali.
Piuttosto, ciò che gli interessa è quella che John Hicks chiamerebbe la traversa, ovvero il concreto percorso di transizione attraverso cui si produce il cambiamento sociale ed economico. In questo ambito, uno degli elementi di maggiore interesse che Mulgan sottolinea è il passaggio di testimone tra innovazione tecnologica ed innovazione sociale come fattore centrale del cambiamento. Innovazione sociale vuol dire soprattutto innovazione nei comportamenti e nel significato che si assegna alle cose e agli eventi: una forma di “riprogrammazione” che, a parità di condizioni tecnologiche e materiali, può produrre conseguenze socio-economiche importanti. Fenomeni come la raccolta differenziata o il welfare culturale, come l’agricoltura a km 0 il car sharing, le cui conseguenze macroeconomiche nel medio-lungo termine possono essere, e in alcuni casi sono già, molto rilevanti, non sono il risultato di un cambiamento di paradigma tecnologico ma appunto di una sottile quanto profonda evoluzione delle relazioni sociali.
Per quanto possa essere dematerializzata, l’innovazione tecnologica resta comunque un hardware il cui funzionamento dipende in gran parte dalla potenza del software dell’innovazione sociale. L’emergere di una nuova economia dei contenuti digitali che sta profondamente rivoluzionando il sistema economico globale è lo specchio più evidente di questa nuova situazione e delle contraddizioni legate alla traversa in cui ci troviamo: i profitti delle grandi imprese del capitalismo digitale sono in gran parte legati alla spontanea produzione e condivisione di contenuti degli utenti che produce forme nuove ed interessanti di creazione fondata sulla cooperazione sociale, ma sono appropriati da imprese capitalistiche estremamente tradizionali secondo una logica squisitamente predatoria.
Ciò che Mulgan sembra volerci dire è che questa contraddizione è destinata a diventare palese e a produrre un percorso di cambiamento nel quale realtà marginali nel quadro del capitalismo maturo quali l’impresa sociale e l’economia del non-profit potrebbero assumere una nuova centralità. Ma ci dice anche che, in conseguenza di ciò, la capacità competitiva delle comunità e dei territori dipenderà ancora più che in passato dal patrimonio di “abilità profonde” di innovazione sociale e capitale civico che questi sono in grado di produrre e di trasmettere nel tempo. Per un paese come l’Italia che da tempo ha smesso di crescere, questa può essere una lezione importante, perché il nostro paese è stato uno dei principali centri di elaborazione del paradigma dell’economia civile. Le macerie del sistema attuale, e la chiusura definitiva di un ciclo che esse rappresentano, sono anche il contesto ideale per un nuovo ciclo di innovazione. Mulgan ci fa presente che questa nuova stagione dovrà prendere le mosse in primo luogo da un ciclo di innovazione sociale, o non sarà.
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 21 settembre 2014