a cura di Noi Restiamo Torino
Prima parte. DOMANDA: In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?
PASSARELLA: Io non credo ci sia una regola aurea che vale in tutte le situazioni, per tutti i convegni, tutti i dibattiti, tutte le possibilità di confronto. Credo si debba valutare caso per caso. Credo che sottrarsi a priori al confronto sia sbagliato, proprio perché a priori. Ogni caso va valutato per sé. Per quello che riesco a capire, quello che noi chiamiamo mainstream o pensiero dominante in realtà ha molte sfaccettature. Non è affatto un monolite, gli studiosi non sono uguali, subentrano anche fattori, come dire, personali che esulano dal confronto accademico. Quindi credo che il confronto, laddove è possibile, si debba fare.
In genere, prima delle elezioni, a volere il confronto in TV tra leader (cosa che a me non piace per niente, ma oggi si fa perché si segue un po’ l’esempio del mondo anglosassone), sono i candidati che sono in svantaggio nei sondaggi, non quelli che vincono. Mi pare sensato. Ma se è così, visto che quelli che stanno perdendo siamo noi, siamo noi che dovremmo cercare il confronto. Cosa ci dobbiamo aspettare dal confronto con economisti mainstream? Poco, molto poco da loro. Magari da chi viene a seguire i dibattiti, da qualche giovane studente, invece, qualcosa di più sì. Secondo me l’errore che, per contro, non bisogna fare è attribuire al dibattito accademico importanza eccessiva, perché il mondo là fuori non lo cambiano le idee.
Il mondo là fuori lo cambia la lotta di classe organizzata, non lo cambiano gli intellettuali. Gli intellettuali contribuiscono nella misura in cui, come dire, mettono le proprie idee al servizio della lotta di classe organizzata. Ma la lotta non si sostituisce con le idee, non si sostituisce con i dibattiti. Detto questo, che dire su riformismo o via rivoluzionaria, e sul cambiamento del sistema capitalistico? Intendiamoci, se vogliamo fare la rivoluzione mi dovete prima dire quanta gente abbiamo nell’esercito, nei corpi di polizia, e così via. È così che si fanno le rivoluzioni nel mondo. Siccome a me, al momento, magari non sono bene informato, ma non risulta che siamo così ben attrezzati, direi che l’unica cosa che possiamo fare seriamente è cercare di mettere in difficoltà con proposte alternative, ma soprattutto attraverso le lotte sociali, chi ci governa. Il mio obiettivo è quello di migliorare le condizioni materiali della classe lavoratrice con ogni mezzo necessario. Se [tale miglioramento] passa attraverso politiche di riforma del sistema in cui sono, e non attraverso insurrezioni rivoluzionarie, mi va bene, anzi meglio. Il punto è riuscire a migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e non perdere di vista quell’obiettivo. Perché spesso ci si dice “vabbè, ma noi facciamo la rivoluzione” in qualche modo come alibi per poi non fare niente. Dunque ben vengano le proposte, per esempio, di politica economica alternativa e il confronto di idee in ambito accademico, a patto che si capisca che i dibattiti sono importanti, ma che non possono sostituire la lotta, questo no.
DOMANDA: per me le politiche Keynesiane hanno un senso politico quando diventano di rottura, nel senso che tu costringi il sistema, perché il discorso secondo me è sempre stato: il Keynesismo è una cosa che quando è stata applicata sostanzialmente il sistema capitalista ha potuto reggere fino ad un certo punto, cioè fino a quando i tassi di crescita erano tali e la forza lavoro era tale che comunque il compromesso andava accettato. Dopodichè alla fine anni ’70, ci si è trovati in una situazione in cui c’è stata una reazione, nel senso che avevi il problema dei tassi di profitto che andavano male, avevi il problema di un movimento operaio sindacale molto forte e quindi come reazione hai avuto tutta la controrivoluzione liberista, cose che ben sappiamo. Quindi il punto è che se fare politiche Keynesiane mette in luce il fatto che il sistema le può reggere fino ad un certo punto , quindi aiuta anche a mettere in luce le contraddizioni. Ovvio che il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato dovrebbe essere l’obiettivo a cui tendere, dopodichè il dubbio è sempre a che compromessi devi scendere.
PASSARELLA: Io in chi schifa le politiche keynesiane ci vedo un po’ la favola della volpe e dell’uva. Siccome non riusciamo più a strappare politiche di sostegno alla DOMANDA, di redistribuzione dei redditi e di stato sociale (perché quelle sono state strappate con le unghie, con il sangue, dai lavoratori, non è che te le ha calate dall’alto il capitale, dall’alto della sua generosità), ci raccontiamo che “tanto non le vogliamo, che oggi non funzionerebbero, che quello era il compromesso keynesiano fordista, che oggi ci basta un reddito straccione e siamo contenti, anzi con quello facciamo la rivoluzione”. No, la verità è che dobbiamo tornare a lottare, dobbiamo tornare ad organizzarci per lottare e per strappare quelle riforme.
Se poi quelle riforme mostrano i limiti del sistema capitalistico – perché si è vero, esiste, lo ha detto anche Kalecki, una sorta di incompatibilità tra un regime di pieno impiego e di garanzie contrattuali per i lavoratori e gli interessi della classe dominante – tanto meglio. Noi dobbiamo spingere questo sistema verso il limite, e quel limite si chiama socialismo. Credo che le classi lavoratrici, che sono, ripeto, il mio punto di riferimento quando parlo, accetterebbero ben volentieri una scuola pubblica che torni a funzionare come dovrebbe, un piano per il pieno impiego, e piani di investimento in infrastrutture, incluso un piano per l’edilizia popolare. Sono misure rivoluzionarie? Certo che no. Sono i soviet? No, ma nella situazione data non mi sembrerebbero risultati trascurabili. E il fatto che non abbiamo in questo momento la forza per ottenerli ci deve spingere ad organizzarci con i lavoratori per ottenere quei risultati, non a trovare giustificazioni ex-post alla nostra impotenza.
DOMANDA: Dal suo punto di vista, dove vede in questo momento sia in Italia che in generale nel resto del mondo movimenti e/o contraddizioni più interessanti, con un potenziale di rottura? Pensiamo ad esempio al ruolo della logistica in Italia.
PASSARELLA: Che il sistema capitalistico sia un sistema che genera continue contraddizioni è un dato di fatto. Che stia raggiungendo dei limiti invalicabili sul piano delle risorse naturali, non sono in grado di dirlo. Al riguardo, Giorgio Gattei cita spesso il titolo di un libro di Giorgio Ruffolo, “Il capitalismo ha i secoli contati”. Ecco io tendo a pensare che se questo sistema non viene incalzato dalle lotte non crolla da solo, e in realtà anche quando viene incalzato dalle lotte sembra avere un’incredibile capacità di rigenerarsi. Dunque io non aspetterei, come dire, non confiderei in un collasso imminente del sistema dovuto a contraddizioni con la scarsità delle risorse o alle pur rilevanti dinamiche di classe che in questo momento sono in atto in paesi come la Cina, e non solo.
Poi sulla Cina io ci andrei piano. Si dice sempre che la Cina è un paese capitalistico, ma è una situazione ibrida quella cinese.
Sulla questione ambientale, anche lì ci sono molte contraddizioni. È vero che Pechino è una città dall’aria sia irrespirabile, ma al tempo stesso la Cina è il paese che più di ogni altro fa investimenti in energie pulite. Non so, ecco, non confiderei che il sistema imploda da sé. È un sistema che ha mostrato nei secoli un’incredibile capacità di rigenerarsi. Non so veramente che dire su questo punto, io osservo quello che avviene, e aspetto che si aprano delle possibilità di cambiamento radicale, che però non caleranno dall’alto…
DOMANDA: No, è vero che non ci caleranno dall’alto, però è anche vero che, per esempio, questa cosa della logistica per me è rilevante nel senso che come diceva giustamente secondo me Giorgio Gattei è uno dei pochi passaggi della produzione in cui ancora l’automatizzazione non riesce ad essere totalmente rilevante. E’ vero che hai i container, però è anche vero che la merce nei container qualcuno ce la deve mettere, i camion qualcuno li deve guidare, ecc. Perciò lui diceva: se fermi con le lotte dei lavoratori quel frammento lì, capace anche che vinci, ovviamente sempre nell’ottica di rivendicazioni salariali, diritti sindacali, ecc quindi non in un’ottica eccessivamente ampia.
PASSARELLA: Quell’idea sulla logistica di Giorgio la conosco bene, perché ne abbiamo parlato a lungo in passato. Partì da un articolo di De Cecco del 2000, forse di qualche anno prima addirittura. Giorgio mi fece fare la tesi di laurea sul coefficiente di rotazione nel capitale di Marx, da cui tra l’altro io e Hervè Baron abbiamo tratto un articolo per il Cambridge Journal of Economics, in cui trattiamo esattamente del problema della logistica nella teoria di Marx, ma che nel nostro lavoro viene trasposto nel problema della finanza.
Sembra essere diventato, in realtà, quello la finanza il vero terreno di crisi, il vero elemento di frizione del sistema attuale, più che la logistica in sé. Naturalmente, sulla logistica proprio la Cina mostra che in questo momento ci sono grandi rivoluzioni in atto. Stanno portando rotaie, alta velocità, e container, ovunque. Queste sono cose che Giorgio sa bene, e sulle quali uno dei maggiori esperti è Joseph Halevi. Mi dicono che parte della produzione avvenga addirittura nei container, cioè, la lavorazione viene terminata nei container durante il trasporto marittimo. Questo è in qualche modo un azzeramento del tempo di trasporto, che peraltro è un rebus per la teoria del valore di Marx. Perché in Marx il tempo di lavoro speso nel settore dei trasporti sembra essere produttivo di valore. Non è dunque un tempo da azzerare necessariamente, se non tramite aumenti di produttività, ma qui andiamo fuori tema. Quindi non lo so, sono temi interessanti, ma ci proiettano nel lungo periodo, quando secondo me abbiamo invece al momento problemi incredibili nel breve, brevissimo periodo.
Ad esempio, è vero che l’Italia viene da un lunghissimo declino, ma ho l’impressione che ora si stia per oltrepassare una soglia di non ritorno. Le economie sono piene di non-linearità. Tu puoi, come dire, perdere terreno rispetto ai tuoi concorrenti, un sistema produttivo si può impoverire gradualmente fino a una certa soglia, senza che questo comprometta la reversibilità del sistema. Oltre quella soglia critica c’è, però, un salto qualitativo. Temo che il sistema produttivo italiano si stia avvicinando, se non l’ha già oltrepassata, a quella soglia. E questo per i lavoratori italiani sarebbe un enorme problema, perché naturalmente un conto è combattere contro il padrone italiano per strappare certe concessioni, altro conto è se i centri decisionali si spostano a migliaia di chilometri di distanza. Soprattutto se il tuo sistema non è più in grado strutturalmente di garantire il pieno impiego e condizioni di lavoro decenti, perché è slittato, come dire, lungo la catena internazionale del valore, che è quello che secondo me l’Italia sta facendo. Sono problemi incredibilmente complessi, sui quali non riesco in realtà a dare un mio contributo. Sono molto più concentrato sul breve periodo.
E, per me, nel brevissimo periodo il problema è organizzare le classi lavoratrici, che non sono solo le tute blu naturalmente. Sono le molteplici figure contrattuali in cui la forma lavoro salariato si declina.
DOMANDA: e anche non salariato, c’è tutta la questione del non pagato se ci pensi.
PASSARELLA: sì, diciamo le classi che non hanno controllo diretto né indiretto dei mezzi di produzione. Quelle sono quelle che ho in testa io. Per me il mondo sta diviso in due. Quelli che controllano, direttamente o indirettamente, i mezzi di produzione. E non è detto che debbano essere i proprietari: la proprietà è solo una dimensione giuridica, non è quello il problema. Il problema è il controllo. E chi controlla i mezzi di produzione è una macro classe sociale che include capitalisti industriali, banchieri e finanzieri. E poi ci stanno tutti gli altri.
Il problema è trovare forme di ricomposizione della classe lavoratrice, inseguendo le parole d’ordine giuste. Perché, se le parole d’ordine sono sbagliate, come per esempio quella del reddito di cittadinanza che va molto di moda a sinistra, i risultati possono essere drammatici e irreversibili. Una volta che tu non hai più un luogo di ricomposizione nella produzione, e il basic income atomizza e distrugge quel luogo di ricomposizione, pensare di mettere in discussione questo sistema diventa davvero velleitario.