di Loris Campetti
Lo sciopero? Un’arma spuntata. Quante volte l’abbiamo sentito ripere questo ritornello. C’è la crisi, ci spiegano, la domanda di merci è in caduta libera e bloccando la produzione invece di fare gli interessi dei lavoratori si finisce per aiutare il padrone a ridurre i volumi. C’è la globalizzazione, aggiungono i nuovi filosofi postconflittuali, capitale e lavoro sono sulla stessa nave da guerra, hanno gli stessi interessi e dunque devono remare all’unisono e insieme combattare contro le navi nemiche.
L’amministratore delegato della Fiat Chrysler Automobiles Sergio Marchionne l’ha ripetuto in tutte le lingue. Addirittura, ha imposto un contratto aziendale che sostituisce quello nazionale dei metalmeccanici e impone vincoli assurdi al diritto di sciopero. Con il diritto del lavoro, in Fca sono stati espulsi dalle fabbriche i sindacati che non si sono piegati al volere del capo, aprendo la strada alla guerra giudiziaria. Morale, per lavorare in Fiat bisogna pensarla come il padrone, altrimenti fuori. Vedi Pomigliano.
Ma è proprio vero che lo sciopero non serve a niente? A giudicare dalla lettera inviata da Marchionne ai dipendenti italiani della multinazionale, si direbbe di no. A far prendere carta e penna al supermanager italo-canadese con residenza svizzera – sede legale dell’azienda in Olanda e fiscale in Gran Bretagna dove si pagano meno tasse, cervello a Detroit e produzione tra Usa, Canada, Messico, Serbia, Turchia, in parte ormai minima in Italia – è stato lo sciopero indetto dalla Fiom a Grugliasco, l’ex stabilimento Bertone acquistato dalla Fiat dove oggi si produce la Maserati. Qui la Fiom, che aveva una maggioranza bulgara tra i lavoratori, decise di votare sì al referendum truffa di Marchionne (lavoro in cambio dei diritti) per tenere unita la comunità operaia.
Scelta differente da quella fatta a Mirafiori e Pomigliano. Dunque, il sindacato guidato da Maurizio Landini ha indetto uno sciopero a Grugliasco sui turni e i pesanti carichi di lavoro, sostenendo la necessità di chiamare sulle linee una parte dei cassintegrati di Mirafiori, essendo questo uno dei pochissimi stabilimenti italiani che non soffrono la crisi. Ha scioperato secondo la Fiat l’11% dei dipendenti, secondo la Fiom in alcuni reparti l’adesione ha superato il 30%. Una minoranza comunque, a testimonianza del clima che si respira in fabbrica, tra ricatti e paura. Sempre secondo Marchionne, questo sciagurato sciopero avrebbe provocato la mancata produzione di 11 (sì, undici) vetture. Così l’amministratore delegato ha deciso di scrivere a tutti i dipendenti (le chiama “le persone”, agli operai ha strappato anche la tuta blu) di Fca in Italia.
Dopo aver spiegato alle “persone” quant’è buono lui che si è comprato la Chrysler per non chiudere gli stabilimenti in Italia (è come dire, Fornero docet, che si è allungata l’età pensionabile per aumentare l’occupazione giovanile), passa a elencare i danni provocati dallo sciopero che pure secondo Fca sarebbe fallito: “gli episodi recenti, dovuti al comportamento di un’esigua minoranza, che hanno causato perdite produttive in un momento così delicato, non possopno essere presi con leggerezza… vi chiedo di riflettere sulla gravità delle conseguenze”. Il mondo ci guarda, “tutti osservano tutti… Quello che è successo pochi giorni fa ha certamente cancellato opportunità preziose per sfruttare alcuni picchi di domanda. Ma, cosa ben più grave, ha inferto un duro colpo al nostro e al vostro lavoro”.
E siccome tutti ci guardano, “non ha offerto dell’Italia l’immagine che vorremmo portare nel mondo, quella di un Paese serio e di grande valore…”. Per colpa di pochi pagano tutti, e altre banalità. L’appello finale a essere “compatti e leali nell’impegno preso” (lo scambio diritti-lavoro) è di quelli che fanno tremare le vene e i polsi: “Difendete l’italianità vera – quella fatta di creatività, etica del lavoro e risultati d’eccellenza – che sono le risorse più preziose per guadagnarci il rispetto e la stima sul mercato globale…”.
Tutto questo sbatoccare di campane a morto per uno sciopero “minoritario” in una sola fabbrica, 11 vetture perse, è la testimonianza di un cocktail di arroganza e debolezza di Marchionne e dei suoi mandanti azionisti, una reazione abnorme provocata dalla paura che sia sufficiente una piccola corrente d’aria a far crollare la torre ideologica costruita nel tentativo di riportare tutto il comando nelle mani dell’impresa, cancellando oltre un secolo di lotte operaie. L’ideologia post-conflittuale, però, è fatta degli stessi ingredienti puzzolenti di quella degli albori del capitalismo, quando al lavoro era negata anche la dignità. Figuriamoci lo sciopero, che da Marchionne riceve un’involontaria legittimazione e attualizzazione.
Ripetiamo la domanda: un’ora di sciopero Fiom e 11 macchine perse possono giustificare una reazione tanto scomposta di Marchionne? Peggio, come si giustifica la risposta furibonda dell’ad Fiat che arriva a bloccare gli straordinari e il rientro in produzione di 500 cassintegrati che dovrebbero tornare in linea grazie alla crescente domanda di Maserati? E per giunta arriva a sospendere le pause in occasione delle partite dei Mondiali di calcio? Il fatto è che persino i sindacati obbedienti e collaborativi del sì al padrone a prescindere – Fim, Uilm, Fismic e altre frattaglie – avevano minacciato lo sciopero degli straordinari contro l’indisponibilità della Fiat a rinnovare il contratto, quel contratto aziendale burletta che cancella quello nazionale di categoria. Con il suo bombardamento antioperaio e antisindacale Marchionne parla a tutti, alla Fiom e anche ai sindacati con il cappello in mano, ai quali grida: giù la testa… L’obbedienza dev’essere cieca, senza se e senza ma. Per questo anche la risposta a Marchionne dovrebbe essere senza se e senza ma.