L'abdicazione del re di Spagna. Verso una nuova "transizione"?

6 Giugno 2014 /

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La Spagna e la crisi - Foto di Fabiana-Geomangio
La Spagna e la crisi - Foto di Fabiana-Geomangio
di Angelica Erta
L’abdicazione del re Juan Carlos I si presenta come l’epilogo inevitabile di una saga dinastica che negli ultimi anni ha mostrato al popolo spagnolo ogni sorta di debolezza umana. Dalla fragile salute di un monarca di 76 anni, di cui va impallidendo nella memoria collettiva l’importanza storica all’epoca della Transizione, alla sfrontatezza morale dei suoi eredi, con l’Infanta Cristina nel banco degli indagati per complicità nel cosiddetto caso Noos, la trama di corruzione e tangenti di cui sarebbe stato perno il marito Iñaki Urdangarin.
Eppure l’annuncio, dopo mesi di allusioni sottovoce della stampa, arriva con una tempistica che impone una riflessione. Prorompe ora – e non in seguito al duplice intervento all’anca che obbligò il sovrano a delegare la quasi totalità degli impegni -, quando ormai la questione sembrava accantonata dalla ripresa della normale attività istituzionale, dal viaggio in Marocco presso “l’amico” Mohamed VI, fino al lungo tour fra i paesi arabi a caccia di accordi commerciali per promuovere l’immagine di una Spagna in piena ripresa (una decina di imprese spagnole pubbliche e private partecipano alla costruzione dell’Alta Velocità in Arabia Saudita).

Ci sorprende quando l’immagine del re ha guadagnato qualche punto, a seguito di una ricostruzione volta a cedere lo scettro, fra gli onori, e non a restare in sella, nonostante tutto, come invece lasciava credere. Un’uscita di scena attentamente calcolata, a qualche mese dall’ultima copertina sul tabloid “¡Hola!”, dove posò quasi come un George Clooney, con jersey di cashmere e giacca in tinta, ostentando un vigore e una vicinanza ormai perduti fuori dalle pagine satinate.
Un tour de force fatto per la continuità dell’istituzione monarchica, di cui, nel discorso dell’addio, ha sottolineato la “stabilità”. “Stabilità” che fu una parola chiave all’epoca della Transizione, quando dopo la morte del Caudillo non fece incetta di potere, cosa che gli avrebbe concesso la legislazione franchista, ma si limitò al ruolo di arbitro fra le forze politiche nell’arena. Lo scenario del 1975-76 era paralizzato, il regime manteneva le istituzioni in piedi e l’appoggio delle Forze Armate; l’opposizione era unita in un progetto comune di ristabilimento delle libertà democratiche, ma la mobilizzazione della popolazione sfociava in scioperi e disordini pubblici a cui rispondeva l’apparato repressivo. In questo quadro la figura di Juan Carlos I offrì una via d’uscita senza spargimenti di sangue, la fine non traumatica di una dittatura. Simbolo di questo patto fu l’accettazione della monarchia da parte del Partito Comunista che, con il leader Santiago Carrillo, rinunciò a rivendicare la repubblica in cambio della legalizzazione del partito.
In quel momento la parola “stabilità” aveva un senso, così che negli anni successivi si creò in Spagna un senso di gratitudine circoscritto alla persona del sovrano, piuttosto che la convinzione radicata dell’opportunità della monarchia. Per questo la maggioranza degli spagnoli si dichiarano “juancarlisti” e non monarchici, e in questo sentimento risiede l’ambiguità che potrebbe portare ad una nuova “transizione”, ben più profonda di un passaggio di potere dinastico.
Una spaccatura della società resasi visibile nelle grandi manifestazioni di piazza che, a poche ore dalla notizia dell’abdicazione, hanno reclamato un referendum sulla monarchia. Nel tam tam virale che è iniziato su Facebook e Twitter, portando in piazza migliaia di persone in decine di città spagnole per la “terza repubblica”. In 20.000 si strinsero nella Puerta del Sol a Madrid, mentre nella Plaza de la Catalunya, a Barcellona, si riunivano in 5.000. Sostenuti apertamente da alcuni partiti di estrema sinistra – Izquierda Unida, PCE ed Equo – questi movimenti trovano la loro base nel malessere di una larga fascia di giovani, per i quali questa monarchia da XXI secolo non è nient’altro che un anacronismo. Una volta perduti i due puntelli della sua legittimità, “l’utilità e l’esemplarità”, la “garanzia dei valori democratici” – nelle parole di Juan Carlo I – dove rimane la sua legittimità? Gli sforzi del vecchio sovrano per cedere il testimone al figlio, in un discorso costellato di appelli al rinnovamento e al “protagonismo delle nuove generazioni” si squagliano di fronte agli scandali e agli sperperi del Palazzo, in un Paese in cui il tasso di disoccupazione giovanile, fino ai 24 anni, tocca il 55%.
L’abdicazione obbliga il Congresso a stilare in tempi serratissimi una legge organica di cui la Spagna è al momento priva, per far sì che dopo una doppia approvazione a maggioranza assoluta, si arrivi alla proclamazione del nuovo sovrano prima della fine di giugno. Ma nel futuro della Spagna si leggono ben altre svolte, e in questo processo il fronte repubblicano si mischia con le pulsioni indipendentiste che attraversano la Catalogna e il País Vasco.
Con la costituzione del ’78 la monarchia spagnola abbandonava lo storico centralismo borbonico a favore di uno Stato sostanzialmente federale, in cui si lasciava ampio spazio decisionale alle varie Autonomie. Negli ultimi anni quest’equilibrio è completamente saltato, sfociando nel braccio di ferro fra il presidente della Generalitat de Catalunya, Artur Mas e il presidente del governo Mariano Rajoy sul referendum del prossimo 9 novembre per una Catalogna indipendente.
Ma in questo processo il catalanismo conservatore incarnato da Convergència i Unió si è sempre dimostrato estremamente rispettoso con la figura del re, da cui continuò a sperare una sorta di mediazione che evitasse passaggi traumatici. Per questo, quando nel discorso dopo l’abdicazione del re, Mas rivendicò il processo indipendentista avviato, ricordando però che “a suo tempo ci fu una scommessa maggioritaria, sincera e impegnata del popolo catalano per il modello costituzionale, poi dimostratisi insufficiente, e negli ultimi tempi c’è stata una sconnessione fra il popolo catalano e le istituzioni spagnole”, in molti vi hanno scorto una strizzata d’occhio al futuro re.
Questa rinuncia segna l’inizio di una nuova tappa, vedremo se Felipe VI avrà l’abilità per trovare una via d’uscita, conciliando i desideri di maggior autogoverno delle Autonomie e il marco costituzionale di convivenza costruito all’inizio del regno di Carlo I. Sicuramente il nuovo sovrano avrà tutto l’interesse a mantenere aperta una linea di dialogo con CiU, se non altro perché i suoi esponenti sono rimasti sostanzialmente al margine delle decine di concentrazioni pro-repubblica, limitandosi a un “non è la nostra causa”.
Di tutt’altro stampo l’indipendentismo tradizionale di Esquerra republicana che, a pochi minuti minuti dall’annuncio dell’abdicazione, chiamava a raccolta i suoi: “il processo che inizia lo stato spagnolo non si basa sulla democrazia popolare, ma sulla dinastia. Non possiamo essere d’accordo. I cittadini devono poter decidere nelle urne, come i catalani decideranno il 9 novembre.”

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