di Dario Zanuso e Aldo Zoppo
La decima edizione del Biografilm Festival apre ufficialmente i battenti venerdì 6 giugno, come raccontato nell’articolo di presentazione. Nell’arco di una decina di giorni (fino al 16 giugno) svilupperà una mole impressionante di iniziative, proiezioni, incontri e presentazioni, dalla mattina a notte fonda, in numerosi luoghi della città di Bologna (nelle sale del Lumiere e dell’Odeon, al Cinema Arlecchino e nel Bio Parco, lo spazio all’aperto nei giardini del Cavaticcio).
Tra i tanti eventi, ne segnaliamo alcuni che ruotano attorno ad una delle figure leggendarie della storia del rock: Jimi Hendrix. In anteprima italiana, è proiettato “Jim: all is by my side” di John Ridley, un film biografico che focalizza la propria attenzione sull’anno cruciale, tra il 1966 e il 1967, che precede la famosa esibizione di Monterey, durante la quale Hendrix diede fuoco alla sua chitarra. Questa famosissima esibizione è il perno di “Jimi plays Monterey”, un film del 1986 realizzato dal grande documentarista D.A. Pennebaker, al quale il Festival dedica un omaggio. Le musiche di Hendrix verranno rievocate nel party di apertura del Festival, venerdì 6 giugno, con il live dei Quintorigo “Jimi Hendrix Experience”.
Di seguito vi proponiamo due segnalazioni. Una riguarda l’omaggio che il festival dedica al documentarista Daniele Incalcaterra, con una breve scheda dedicata a “El impenetrabile” film che molto ci ha colpito alla Mostra del cinema di Venezia del 2012. L’altra interessa invece la sezione “Best of Bio”, una selezione dei film più amati ed apprezzati della scorsa edizione del Festival e della Sala Bio. Qui è possibile vedere “Stop the pounding heart”, l’ultimo film di Roberto Minervini, uno dei registi più promettenti del nostro cinema. A loro dedichiamo un breve articolo.
Daniele Incalcaterra e Fausta Quatrini, El impenetrabile, Francia-Argentina, 2012
Con El impenetrable Daniele Incalcaterra, con la co-regista Fausta Quattrini, racconta una vicenda personale: il tentativo di liberarsi di una eredità “sbagliata”, un vasto terreno nel mezzo della foresta tropicale del Paraguay, acquistato dal padre negli anni ‘80, quando era diplomatico in quel paese. Un po’ ingenuamente pensa di donarlo agli indios ma ben presto si rende conto che, là dove tutto si compra e si vende, il progetto è irrealizzabile, per via delle difficoltà burocratiche (il terreno risulta essere stato venduto a più persone) e dell’ostilità dei grandi latifondisti del posto. Attraverso il racconto preciso e documentato delle tante peripezie affrontate e delle persone incontrate, il documentario riesce ad offrire un vivido ritratto dei problemi del paese, a partire dalla deforestazione che avanza inesorabile per l’imporsi dell’agricoltura intensiva. Mostra anche le grandi difficoltà con la quale le forze progressiste (all’epoca era presidente Fernando Lugo, singolare figura di vescovo di sinistra) cercano di rimediare ai guasti prodotti dai governi dittatoriali del passato. Un passato, dominato dalla corruzione e dalla sudditanza della politica ai poteri economici, che sembra difficile rimuovere.
Roberto Minervini, uno sguardo pasoliniano in bilico tra finzione e documentario
Roberto Minervini è un giovane regista, ancora poco conosciuto, ma che si sta facendo strada grazie alla sorprendente forza dei suoi film. Pur nella loro semplicità, essi esprimono una coraggiosa ed ostinata fedeltà ad una idea rigorosa di cinema, lontana anni luce dalle strade più facili e battute. La critica più attenta ha azzardato paragoni piuttosto impegnativi, osservando che il suo stile ricorda quello di maestri come Rossellini, Bresson e Malick. Lui ha dichiarato di sentirsi vicino ad autori come Zavattini e Pasolini, per la volontà di rappresentare situazioni e personaggi presi dalla vita reale.
Minervini è arrivato al cinema in maniera quasi casuale. Nato in un piccolo paese delle Marche, pur provenendo da una famiglia che gli trasmette una contagiosa passione per l’arte, segue per un lungo tratto della sua vita, per necessità, un percorso che ha come approdo il mestiere di consulente aziendale, senza tuttavia mai rinunciare del tutto alle sue più profonde aspirazioni. A Madrid per uno stage alla Camera di commercio, incontra Denise, la sua futura moglie, di origine americana. La segue a Londra e quindi a New York.
Perde il posto di lavoro in seguito all’attentato dell’11.9.2001. Anche grazie ai sussidi per le vittime riesce a completare un master in Media studies, specializzandosi in regia e sceneggiatura. Si trasferisce con la famiglia a Houston dove realizza la sua “trilogia texana”: The passage (2011), una donna con una malattia terminale che si affida ad un guaritore filippino, Low tide (2012), un ragazzino costretto a riempire il vuoto causato dall’assenza degli adulti, e Stop the pounding heart (2013). Quest’ultimo ha avuto l’onore di essere invitato al Festival di Cannes (fuori concorso) ed è la sua opera più matura.
Il film è ambientato nel cuore più profondo del Texas, quello rurale e conservatore. Ci racconta di Sara, una ragazza alle soglie dell’adolescenza. Appartiene ad una famiglia di allevatori di capre, che cresce i propri numerosi figli nel rispetto dei valori della religione cristiana, letti nella loro interpretazione più letterale (potremmo anche dire integralista o reazionaria). I personaggi che vediamo sullo schermo non sono interpretati da attori, sono persone che interpretano sé stessi. Minervini ha conosciuto questa famiglia nel corso della sua esplorazione del Texas.
Pur provenendo da una cultura diversa (laica ed illuminista), è rimasto colpito dal loro modo di vivere ed ha deciso di provare a farne l’oggetto di un racconto. Attraverso la descrizione dei diversi momenti della vita quotidiana (la cura degli animali, la vendita del formaggio nei mercati, l’educazione dei figli, che avviene in famiglia e non a scuola, i lunghi dialoghi con la madre, l’allenamento ai rodei) si compone gradualmente il ritratto di un mondo, mostrato al di fuori degli stereotipi con i quali siamo abituati ad immaginarlo. Il film ha sicuramente molti tratti documentaristici, e tuttavia l’esito è molto più complesso e profondo, non solo per la grande cura delle immagini, di una bellezza a tratti folgorante, ma soprattutto per la forza poetica del racconto che riesce, con grande naturalezza e delicatezza, a far nascere dai personaggi su cui concentra la sua attenzione.
Sara, appunto, e Colby, un giovane bull rider, che si incontrano e conoscono tra tante incertezze e timidezze. In questa curiosità, che spinge Sara a varcare il confine del proprio rassicurante e avvolgente universo familiare, riusciamo ad intuire l’interrogarsi, da parte di chi si affaccia all’età adulta, attorno al mondo in cui si trova a vivere e alle sue regole. La ricerca di una propria voce e identità, avviene per Sara attraverso un confronto interiore, di cui non conosceremo gli esiti. Non assume quindi i tratti della ribellione, che sono quelli che più di frequente il cinema e la letteratura ci ha mostrato.
A questo mondo e ai personaggi che lo abitano, Minervini si è accostato senza avere già in testa una storia, una sceneggiatura. È questa, ci pare, l’essenza del suo stile: il rifiuto delle storie scritte sulla carta (con le conseguenti facili drammatizzazioni) e il profondo rispetto per i propri personaggi, colti nella loro complessità.