di Emilio Carnevali
Quando gli vengono ricordate le accuse mossegli da Der Spiegel – il settimanale tedesco lo ha definito «il nemico numero uno dell’Europa» – Alexis Tsipras non si scompone: «Certo, sono il rivale dell’Europa dei mercati e delle disuguaglianze sociali». Aggiunge però subito dopo: «Ma siamo anche l’unica speranza per quella solidale, dei popoli, della democrazia, della dignità». Il leader della sinistra ellenica non è infatti un antieuropeista. Se mai, è un critico severo delle politiche economiche europee e dei trattati che hanno fatto del rigore di bilancio l’unica stella polare dei governi nella tempesta della crisi.
Da questo punto di vista il “radicale” Tsipras è in buona compagnia, se è vero che perfino il Fondo monetario internazionale (uno dei componenti della famigerata Troika, insieme a Commissione europea e Banca centrale europea) ha dovuto fare autocritica sulla gestione della crisi greca. Lo scorso giugno l’organizzazione guidata da Christine Lagarde ha diffuso un rapporto in cui si ammette la drammatica sottovalutazione dei danni prodotti dalle misure di austerità imposte ad Atene. L’accento è posto in particolar modo sul ritardo nella ristrutturazione del debito sovrano ellenico, arrivata solo nel maggio del 2012 (due anni dopo il primo piano di salvataggio da 110 miliardi di euro). Tempi più celeri avrebbero per altro evitato, con tutta probabilità, la trasmissione del contagio in tutto il continente.
«Quanto fatto dal 2008 ad oggi verrà insegnato nelle facoltà di economia, ma come esempio da evitare», dice Tsipras in una intervista pubblicata oggi sulla Repubblica. I numeri parlano chiaro: l’economia ellenica è in recessione dal 2008. La serie storica del Pil mostra un andamento che si attaglia meglio a periodi caratterizzati da eventi bellici che ad anni di “pace”: -0,2% nel 2008, -3,1% nel 2009, -4,9% nel 2010, -7,1% nel 2011, -6,3% nel 2012, -4,1% nel 2013. Per il prossimo anno il Fondo monetario prevede una leggera crescita (+0,6%), del tutto insufficiente però per riassorbire una disoccupazione che viaggia ormai verso quota 30% (mentre quella giovanile supera il 50%). Nonostante l’haircut del 2012, e le politiche di tagli draconiani alla spesa statale e di incremento delle tasse, il debito pubblico ellenico quest’anno si è assestato al 172% del Pil e non dovrebbe scendere nemmeno nel 2014.
Ecco perché è proprio a una soluzione “postbellica” che fa riferimento Tsipras quando invoca «una conferenza europea per il debito, sul modello di quella del ’53 che cancellò gran parte del debito della Germania». Un altro pilastro della “Tsiprasnomics” rimanda al mandato della Banca centrale europea, il cui statuto assegna assoluta priorità al controllo dell’inflazione, diversamente – ad esempio – dalla Fed americana, che nel 2012 ha inoltre vincolato il proprio operato a un preciso obiettivo di occupazione: fino a quando il tasso dei senza lavoro non sarebbe sceso fino al 6,5%, dichiarò l’allora presidente Ben Bernanke, non sarebbe venuta meno la politica monetaria fortemente espansiva inaugurata con lo scoppio della crisi.
Tsipras ha in mente una banca centrale meno “europea” e più “americana” quando dice che Mario Draghi dovrebbe intervenire con l’acquisto diretto di titoli di stato dei Paesi dell’eurozona. La Bce dovrebbe cioè fungere da vero prestatore di ultima istanza, senza essere più costretta a ricorrere a meccanismi di finanziamento indiretto come il Ltro (Long term refinancing operation o piano di rifinanziamento a lungo termine), il dispositivo tramite il quale, fra il 2011 e il 2012, sono stati fatti arrivare agli istituti bancari dei diversi paesi europei circa 1000 miliardi di euro utilizzati in buona parte per l’acquisto di titoli del debito sovrano emessi dai rispettivi governi.
Il leder di Syriza dice esplicitamente di trarre ispirazione dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt quando propone la separazione tra «attività commerciali e quelle di investimento delle banche» (sul modello del Glass-Steagall Act del 1933, abolito da Clinton e in parte ripristinato dalla riforma finanziaria di Obama) e quando insiste sulla necessità di un «piano di investimenti pubblici per lo sviluppo». Fu proprio questa la strategia con la quale il presidente democratico affrontò la Grande Depressione seguita alla crisi del 1929. In un momento in cui gli investimenti privati erano stati annichiliti dal panico che accompagnò il più grande crollo finanziario della storia, furono le istituzioni pubbliche a sobbarcarsi il compito di sostenere la “domanda aggregata” e contrastare la disoccupazione dilagante. Da un punto di vista teorico tutto ciò trovò una sintesi magistrale nella Teoria Generale di John Maynard Keynes, data alle stampe nel 1936, che inferse un colpo senza precedenti all’ortodossia economica fondata sull’ipotesi di una naturale tendenza dell’economia capitalista al pieno impiego dei fattori produttivi.
Alla luce dei programmi e delle proposte concrete, dunque, l'”eretico” Tsipras, il “radicale” Tsipras, «il nemico numero uno dell’Europa», altro non si rivela che un “europeista keynesiano” assai poco tentato da soluzioni “antisistema” («l’abbandono della moneta unica non è la via d’uscita», dice fra le altre cose): un “socialdemocratico classico”, lo si potrebbe definire, se lo smarrimento delle forze della socialdemocrazia europea di fronte alle politiche di austerity non avesse ormai posto in dubbio la capacità definitoria delle categorie politiche tradizionali. È lo stesso leader greco, tuttavia, ad augurarsi una “svolta a sinistra” dei socialisti europei: che le loro strade siano un giorno destinate ad incontrarsi?
Questo articolo è stato pubblicato su Pagina 99 il 7 febbraio 2014 e ha il valore di anticipare le tematiche che hanno consentito alla Lista Tsipras di superare lo sbarramento del 4% per le europee