L’unione contro le destre da sola non basterà

di Giulio Calella /
13 Giugno 2024 /

Condividi su

La marea nera nasce dalla crisi prolungata della governance capitalistica. L’estrema destra cerca di mascherarla con un discorso nazionalista, la sinistra non ci riesce. Nessun fronte comune potrà aggirare questo nodo di fondo

Ci hanno visto arrivare ma non sono riusciti a fermarci, ha dichiarato Giorgia Meloni dopo lo spoglio delle schede elettorali delle europee. Questa volta è difficile darle torto. Come ha scritto Lorenzo Zamponi, quella nera non è infatti un’onda improvvisa ma una marea che arriva un po’ alla volta. La vediamo arrivare da tempo e fermarla non sarebbe certo impossibile, servirebbe però almeno uno sforzo di analisi non superficiale sui motivi da cui origina e sulle armi che le si oppongono per arginarla. 

La marea nera cresce in tutta Europa, portando a immediate nuove elezioni in Francia dopo il successo del Rassemblement National di Marine Le Pen, a un terremoto politico in Germania con il sorpasso dell’estrema destra di Afd sul partito socialista del cancelliere Olaf Scholz, a un risultato inquietante di Vox in Spagna e di Chega in Portogallo, oltre alla conferma del successo di Giorgia Meloni in Italia. Contemporaneamente gli Stati uniti si avvicinano alla tornata di elezioni presidenziali di novembre con di nuovo Donald Trump sulla rampa di lancio. 

Dopo la sconfitta del movimento altermondialista dell’inizio del nuovo millennio, e poi dei movimenti anti-austerity dei primi anni Dieci, la sfiducia diffusa verso la globalizzazione liberista è stata sempre più egemonizzata dal discorso nazionalista. Si tratta di un processo che va avanti da almeno 15 anni, la cui crescita però non è stata lineare. Come tutte le maree, del resto, anche la marea nera a volte si innalza e a volte si abbassa.

L’origine della marea nera

Non si può analizzare la causa di questa marea senza tornare alla crisi economica del 2007-08, arginata con varie manovre finanziarie ma mai risolta dal punto di vista strutturale. È questa infatti ad aver segnato l’inizio della lunga depressione della globalizzazione capitalista che viviamo. 

Dallo scoppio della bolla immobiliare negli Usa, infatti, le economie capitaliste avanzate non sono più uscite dalla crisi, con la conseguente perdita di credibilità e di consenso delle proprie classi dirigenti. Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito prima alla crisi del debito sovrano di molti paesi, poi all’emergenza sanitaria del Covid19, poi allo scoppio della guerra in Ucraina, con il conseguente ritorno dell’inflazione, fino ai nuovi terribili massacri in Medio oriente. Il tutto mentre il tasso di crescita economica nei paesi occidentali si assottiglia sempre di più, crescono i monopoli, diminuisce la produttività, aumentano le disuguaglianze e si acuiscono gli effetti del cambiamento climatico. Tutti dati che smentiscono in modo clamoroso la grande promessa di crescita e benessere su cui si era basata l’egemonia politica neoliberista negli anni Ottanta e Novanta. Come ammette anche l’editorialista del Financial Times Martin Wolf, «il fallimento dell’economia non è la sola causa del crollo della fiducia. Ma è uno dei motivi principali della perdita di legittimità della democrazia liberale».

Queste crisi prolungate e sovrapposte hanno provocato più o meno ovunque instabilità politica, esplosione e repentina risacca di nuovi soggetti politici, l’apparente estinzione delle vecchie socialdemocrazie convertite al liberalismo (che pure ora sembrano resuscitare), l’astensionismo di massa e, appunto, l’emergere della marea della destra estrema. 

Di fronte alla crisi delle promesse della globalizzazione capitalistica le proposte politiche di cambiamento radicale – sia in senso socialista sia in senso nazionalista – hanno mostrato un appeal che prima di quindici anni fa non avevano. Con un o una leader sufficientemente carismatica e credibile si sono proposti come concrete alternative di governo. È successo all’estrema destra di Donald Trump, Marine Le Pen, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Boris Johnson. Ma è successo anche a sinistra con il socialista Usa Bernie Sanders, con la Podemos di Pablo Iglesias, la Syriza di Alexis Tsipras, il Labour di Jeremy Corbyn e La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. 

Figlie di questi tempi di crisi delle ideologie e della partecipazione politica, prive del necessario bagaglio culturale, di radicamento sociale e soprattutto della capacità di costruire i rapporti di forza materiali per cambiare realmente politica, queste stesse alternative radicali hanno avuto spesso vita breve e, specie nei casi in cui sono arrivate al governo (da sole o in coalizione), hanno finito per produrre delusione ed essere bocciate al turno successivo. Al dunque insomma si sono rivelate fragili tanto quanto le forze politiche, popolari o social-liberiste, che hanno governato con continuità questa globalizzazione. Che infatti anche quando sembrano morte possono risorgere.

Fragilità asimmetriche

Nelle elezioni continentali dell’8-9 giugno le destre estreme crescono tutte dall’opposizione, tranne appunto il caso italiano di Giorgia Meloni che, pur perdendo 700mila voti in termini assoluti rispetto alle elezioni politiche del 2022, cresce in termini percentuali confermando sostanzialmente la sua forza pur stando al governo. L’eccezione della leader di Fratelli d’Italia ha però dei precedenti poco illustri che possono attenuare il suo ottimismo. Un fenomeno simile si è visto infatti nelle elezioni europee del 2014 e del 2019, con i rispettivi exploit dei due all’epoca leader di governo Matteo Renzi e Matteo Salvini – ancora in «luna di miele» con il proprio elettorato dopo solo un anno e mezzo di governo – poi presto decaduti e oggi grandi sconfitti della  tornata elettorale. Il caso più emblematico è proprio quello della Lega, che solo 5 anni fa sembrava imbattibile raccogliendo alle europee il 34% e 9 milioni di voti, ben al di sopra dei 6 milioni e 700mila voti raccolti oggi da Giorgia Meloni. I dati assoluti del 9 giugno mostrano che in soli cinque anni Salvini ha perso 7 milioni di voti, in larga parte riversatisi proprio sul nuovo volto della destra, quello di Fratelli d’Italia. 

Gli alti e bassi continuano insomma anche per le forze di estrema destra, perché una volta al governo mostrano la fragilità anche del progetto politico nazionalista adeguandosi alle strategie delle classi dominanti, le cui catene produttive e commerciali possono cambiare rotte e flussi, possono gradire alcuni protezionismi selettivi, ma non ripiegano sul piano nazionale

Questa fragilità però indubbiamente non è simmetrica. La retorica nazionalista logora di meno l’estrema destra al governo rispetto a quanto logori le forze di sinistra l’incapacità di attuare politiche concrete contro la disuguaglianza: le destre possono infatti portare avanti politiche securitarie e razziste anche senza cambiare il segno delle politiche economiche. È il meccanismo che permette alle destre di scaricare l’attenzione dagli effetti della crisi sulle politiche securitarie costruendo egemonia sul discorso razzista. 

La sinistra radicale e anticapitalista al contrario, per motivi di identità, è quella che subisce più duramente i fallimenti in senso redistributivo dei propri governi, come si è visto per Syriza in Grecia e anche per Podemos e poi Sumar in Spagna, quest’ultima con la propria leader Yolanda Díaz – fino a pochi mesi fa considerata in grande ascesa – dimissionaria dopo il modesto 4% raccolto alle europee. La destra radicale ritorna invece più facilmente sulla scena, con altri volti (Meloni al posto di Salvini) o addirittura con gli stessi (come nel caso di Trump).

La fragilità del consenso di tutti i soggetti politici è però fotografata in modo dirompente dall’astensionismo che avanza in modo sempre più veloce e con caratteristiche sociali profondamente connotate in termini di classe: quest’anno a livello europeo si è raggiunto il minimo storico di affluenza alle urne, con il 48% degli aventi diritto contro il già disastroso 54,5% delle ultime elezioni continentali. È un dato macroscopico che non si può non vedere. Del resto basta arrivare a percentuali di affluenza intorno al 65/70% (viste in alcune elezioni amministrative) per avere dieci milioni di votanti in più e stravolgere potenzialmente i rapporti di forza tra le attuali formazioni politiche.

Il limite della logica frontista

Davanti alla crescita dell’estrema destra si viene inevitabilmente e comprensibilmente spinti verso il frontismo, come accade in queste ore Francia con la formazione di un fronte unitario delle forze democratiche e repubblicane per provare ad arginare la probabile vittoria elettorale di Marine Le Pen. L’azzardo prodotto dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale a opera di Emmanuel Macron dopo la sconfitta alle europee è evidente, ma forse stimolare il fronte comune repubblicano contro le destre neofasciste era una delle poche carte che aveva per evitare la propria caduta personale e porre un più robusto argine elettorale temporaneo contro le destre. Il problema è che anche quando funziona – e sarà molto difficile nel caso francese – senza un cambiamento radicale nella successiva governance della globalizzazione capitalista la crisi continua e al giro successivo la sinistra si indebolisce ancora di più mentre la destra estrema torna ancora più forte, con lo stesso o con un altro volto. 

L’Italia è stata un laboratorio anche da questo punto di vista durante la Seconda Repubblica, con la spinta continua a sinistra di fronti comuni per battere Silvio Berlusconi. Un frontismo che a volte ha raccolto successi elettorali contro la destre ma che ha contemporaneamente contribuito all’idea del There is no alternative al capitalismo liberista, spingendo la sinistra radicale fino al limite della propria stessa estinzione.   

Non si potrà aggirare in eterno il dato strutturale della fase che è la crisi radicale del governo della globalizzazione liberista. Senza la costruzione di medio periodo di altrettanto radicali programmi, cultura politica e conflitti di stampo ecosocialista, qualsiasi fronte comune democratico non basterà a salvarci da questa marea. 

Questo articolo è stato pubblicato su Jacobin l’11 giugno 2024

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati