di Andrea Palladino
È il 20 marzo del 1994, Mogadiscio. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono appena tornati da Bosaso, nel Nord della Somalia. Il paese è nel pieno di una guerra civile che durava dal momento della caduta di Siad Barre. Ilaria ha tra le mani un ottimo servizio per il telegiornale della sera. Lo ha annunciato al suo caporedattore, senza dare altri particolari. Ha poco tempo, deve rivedere il materiale girato da Miran, preparare i testi, la scaletta. È uscita dall’albergo diretta ad un incontro, forse con il corrispondente dell’Ansa Remigio Benni, che però era già partito. Il contingente internazionale Unosom stava lasciando Mogadiscio in quelle ore, i soldati italiani si erano riuniti nel porto, dove la nave Garibaldi era pronta per salpare.
Quello che è avvenuto quel 20 marzo del 1994 è ormai noto. Un commando segue il loro fuoristrada e, a pochi metri dall’ex ambasciata italiana, scatta l’imboscata. Un’operazione quasi chirurgica: un colpo alla nuca – sparato a distanza ravvicinata, come stabilirà il medico nel corso dell’esame esterno del cadavere – uccide Ilaria Alpi e un colpo probabilmente di Ak 47 fredda Miran Hrovatin. Un’esecuzione.
Ilaria Alpi da tempo stava preparando un’inchiesta sui traffici che passavano per la Somalia. Quello che è ormai certo – a distanza di anni e nonostante le conclusioni scandalose della commissione parlamentare d’inchiesta guidata dall’avvocato Taormina – è che i moventi dell’agguato sono custoditi nel crocevia dei traffici somali.
Piero Sebri parla per la prima volta su ciò che avvenne in Somalia. Serve una premessa, fondamentale. Lui non ha mai partecipato direttamente o indirettamente ai traffici che hanno coinvolto il territorio somalo nell’epoca della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ma, spiega, conosce quel gruppo che, secondo il suo racconto, si celerebbe dietro l’agguato. Lo conosce talmente bene da essere contattato in Italia da due personaggi chiave della vicenda somala, il cui ruolo non è mai stato completamente chiarito, l’allora colonnello del Sismi Luca Rajola Pescarini e l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino. Oggi il suo racconto va oltre, arrivando ad ipotizzare un ruolo attivo delle mafie nell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Una versione che trova alcuni riscontri in due messaggi cifrati partiti dai servizi segreti della Marina militare.
«Ilaria Alpi, con i documenti che aveva raccolto, era in grado di creare problemi enormi all’interno di governi. Non somali: governi italiani, governi esteri, gruppi bancari». Il ritmo veloce delle parole e il modo quasi istrionico di Sebri su questo punto rallenta. Vuole che il suo racconto sia chiaro, senza equivoci: «Se mi trovo in Somalia per organizzare determinati traffici e arriva una giornalista, che comincia ad interessarsi, gira per qualche ambasciata, fa domande a destra e sinistra… Non direttamente, ma indirettamente comincio a fare qualche scherzo».
Sebri ricorda la sua esperienza diretta, in Repubblica Dominicana, quando un giornalista italiano arrivò nella capitale per un’inchiesta sul traffico dei rifiuti. «Lui era in spiaggia, e io gli feci trovare un biglietto nella scarpa, chiaro e diretto. Se non gli basta comincio a mandargli qualche messaggino: è meglio che prendi l’aereo e te ne torni in Italia», ricorda. Poi riprende il racconto sulla Somalia: «Ilaria Alpi – come io ho letto, attenzione: non che io sappia – era già stata minacciata e lei non se ne andava, anzi insisteva. E a mano a mano che andava avanti acquisiva sempre maggiori informazioni. A questo punto il lavoro del trafficante è di segnalare a chi di dovere, al politico, ai servizi. ‘Attenzione che qua vanno a monte alcuni affari’… C’era solo una soluzione: eliminarla immediatamente».
Si pone, a questo punto, il primo interrogativo, mai risolto fino in fondo: Ilaria Alpi era stata minacciata? E da chi? Il giorno dopo l’agguato la seconda divisione del Sismi invia in Italia una nota riservata: «I due giornalisti – scrivono gli agenti ancora presenti a Mogadiscio – sono rientrati da Bosaso per un servizio sul fondamentalismo islamico locale». Una notizia falsa, questa, facilmente smentibile guardando le riprese tornate in Italia con i corpi e, soprattutto, i bloc-notes della Alpi. Non c’è una sola parola sul tema del fondamentalismo. Subito dopo, la nota riferisce, invece, un’altra notizia: «In detta località essi sarebbero stati oggetto di minacce». Da parte di chi? Nessun documento, tra quelli acquisiti dalla magistratura e dalla commissione parlamentare, lo dice. In ogni caso il Sismi – in una nota inviata al ministro della Difesa dell’epoca e al capo dello Stato Maggiore – attribuiva l’omicidio esclusivamente a due possibili moventi: il fondamentalismo islamico o la criminalità comune. Per i servizi segreti ogni altra ipotesi era inesistente.
La mafia è prima di tutto, nell’organizzazione di un traffico internazionale, la garanzia assoluta dell’affidabilità di un’operazione delicata. «Se io sono in Somalia, e la giornalista non se ne va, io informo i politici, informo chi di dovere, magari gli stessi servizi. Anzi, magari sono proprio loro che m’informano dicendo che c’è un problema. Mi dicono: attenzione, noi giriamo la faccia dall’altra parte… E adesso basta – mi dicono – questa persona va eliminata. A quel punto la questione è: a chi la faccio eliminare? Io la elimino? Ma neanche per sogno. La faccio eliminare da un somalo? Può anche essere, ma devo avere la certezza assoluta che Ilaria Alpi e Hrovatin siano eliminati.
Non si può sbagliare. Se fossero stati in quattro, dovevano essere eliminati in quattro, se erano in dieci ne ammazzavano dieci, non gliene fregava nulla. Questo è il motivo – io credo – per cui è stata ammazzata, questo è il lavoro della mafia». Una sorta di supervisione in un territorio ostile, difficile da controllare. «Se il somalo incaricato dell’omicidio – per ipotesi – sbaglia, ci deve essere una persona della mafia presente in quel posto. E chi è questo tipo di persona presente in quel momento a Mogadiscio? Qual è l’unica persona che ha dei debiti, ha delle cambiali personali nei confronti dell’organizzazione che stava agendo in quei mesi? Un’organizzazione di trafficanti, che a sua volta è in debito con i referenti politici italiani, che coprivano quei traffici».
Il terreno diventa a questo punto minato. Sebri pronuncia senza timore i nomi. Personaggi che furono analizzati solo superficialmente in commissione Alpi e mai interrogati dalla magistratura. Eppure, secondo alcuni documenti attendibili, si trovavano nell’area di Bosaso nei giorni cruciali che hanno preceduto la morte di Ilaria Alpi. E – secondo alcune testimonianze – furono gli ultimi ad incontrare la giornalista del Tg3, poco prima dell’agguato, nella hall di un hotel. Per la giustizia italiana sarebbero però assolutamente estranei alle vicende somale.
Il nome che pronuncia Piero Sebri è quello di Giuseppe Cammisa, detto Jupiter, braccio destro di Francesco Cardella, per anni ambasciatore del Nicaragua in Arabia Saudita, con un passato burrascoso a capo della comunità terapeutica Saman, morto d’infarto il 6 agosto del 2011. Cammisa era fino al 1985 un tossicodipendente, proveniente da una famiglia originaria di Mazara del Vallo. Entrò nella comunità Saman fondata da Francesco Cardella e Mauro Rostagno ufficialmente per seguire un programma di recupero. Dopo l’omicidio di Rostagno – avvenuto il 26 settembre del 1988 – divenne il braccio destro di Francesco Cardella, che prese in mano l’amministrazione di Saman.
Il collaboratore di giustizia Rosario Spatola – imprenditore edile legato a Cosa Nostra, già inquisito da Giovanni Falcone – ha conosciuto bene Giuseppe Cammisa: «Posso precisare che è un buon conoscitore del procedimento di raffinazione dell’eroina», ha raccontato alla Procura di Trapani nel 1995. E aggiunge subito dopo: «Non mi risulta che il Cammisa abbia mai commesso o abbia partecipato ad omicidi. Devo tuttavia precisare che nel 1983, appunto per la sua affidabilità, avevo incaricato il Cammisa di pedinare il maresciallo dei carabinieri Noto Pietro, all’epoca in servizio a Marsala, in quanto nutrivo propositi di vendetta nei confronti del suddetto graduato». Una questione di affidabilità, un esperto di logistica e pedinamenti. Un ritratto che corrisponde con il profilo descritto da Piero Sebri nel suo racconto. Ma non basta, servono altri elementi.
Francesco Cardella e Giuseppe Cammisa negli anni Novanta hanno avuto diversi guai giudiziari. Quello che è certo, dal punto di vista processuale, è che la gestione della comunità terapeutica dopo la morte di Rostagno fu devastante. Francesco Cardella venne processato e condannato per truffa, per aver sottratto diversi fondi pubblici, attraverso una fitta rete di società con base a Malta. L’accusa più pesante, però, fu di aver organizzato l’agguato contro Rostagno. Cardella e Cammisa vennero poi prosciolti e la loro posizione archiviata: l’omicidio Rostagno, è la tesi della Dda di Palermo, sarebbe stato organizzato dalla cosca di Trapani di Virga.
Nel corso delle indagini – condotte dalla Digos di Trapani, su delega della locale Procura – sono emersi anche diversi indizi che hanno fatto ipotizzare un presunto traffico di armi. Ora è noto che la città di Trapani, per la sua posizione geografica strategica, sia stata utilizzata da Cosa Nostra come piattaforma logistica per i traffici illeciti con il Nord Africa. Già negli anni Ottanta il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva scoperto come da Trapani partissero le rotte di molti traffici di armi, diretti anche verso gli Usa. Un’inchiesta che non riuscì a concludere: il magistrato venne ucciso da Cosa Nostra il 25 gennaio 1983. Carlo Palermo, il giudice istruttore di Trento che aveva avviato la principale inchiesta sulle rotte armate della storia giudiziaria italiana, proprio a Trapani rischiò la vita, salvandosi per miracolo da un attentato dinamitardo, pochi mesi dopo il suo arrivo in quella Procura.
Del possibile coinvolgimento di alcuni esponenti della Saman nei traffici illeciti non parla solo la Digos. Tra gli atti acquisiti dalla commissione Alpi c’è un documento del Sismi – desecretato nel 2006 – che ipotizza il coinvolgimento della comunità terapeutica guidata da Cardella in rotte riservate verso la Somalia. Rispondendo ad una richiesta arrivata dalla Procura di Torre Annunziata, il direttore del servizio segreto militare ammiraglio Gianfranco Battelli scriveva nel 2000: «Emerge che Cardella Francesco […] risulta proprietario della motonave Garaventa che, nel febbraio 1994, giunta a Malta da Marsala per effettuare riparazioni in modo riservato, avrebbe raggiunto la Somalia con un carico di cibo e medicinali».
La domanda lecita da porsi è: se trasportava «cibo e medicinali» perché effettuare una riparazione che il Sismi definisce riservata? Saman, ufficialmente, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta gestiva un progetto di cooperazione con la città somala di Las Korey, distante un centinaio di chilometri da Bosaso. Francesco Cardella un mese prima della sua morte raccontava così quell’attività: «L’idea di base – discussa con il giornalista e profondo conoscitore della Somalia (nonché caro amico mio) Pietro Petrucci – era di produrre una missione umanitaria nella zona dell’ex Somalia britannica. Con questo scopo andammo a Las Korey io, lo stesso Petrucci e il dottor Omar Hersi. Incontrammo i maggiorenti locali e fissammo un piano che pretendeva riabilitare una piccola struttura sanitaria esistente nel villaggio di Las Korey. Lì avremmo messo insieme un piccolo gruppo di medici provenienti sia dalle zone circostanti che dalla diaspora provocata dalle guerre tribali.
Rientrato in Italia – ed in attesa che si montasse tutta l’operazione con la sigla di Oiasa (Organisation Internationale pour l’Aide Sanitaire et Alimentaire) mandai Cammisa e Hersi prima a Dubai – dove avrebbero acquistato un fuoristrada ed altre attrezzature necessarie ad un primo intervento e dove avrebbero ricevuto medicinali inviati da Milano -, e da lì – via Gibuti – nella zona di Las Korey. È quello che fecero e i medicinali furono distribuiti a Las Korey e nelle zone vicine». Un semplice aiuto umanitario, assicura Cardella. Per il Sismi, però, quel progetto non esisteva. Scrive ancora l’ammiraglio Battelli nella sua risposta alla Procura di Torre Annunziata: «Nulla, invece, è noto circa il suo impegno nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso». E nulla risulta – occorre aggiungere – dalla documentazione sulla cooperazione italiana in Somalia acquisita dalla commissione Alpi.
Ritornando al racconto di Piero Sebri, che associa la presenza di Giuseppe Cammisa in Somalia nel marzo del 1994 con la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, abbiamo più elementi concordanti che confermerebbero il viaggio verso l’area di Bosaso del braccio destro di Cardella. Primo, il Sismi riferisce del viaggio verso la Somalia nel febbraio 1994 della nave Garaventa, circostanza che Cardella però smentisce; secondo, lo stesso Cardella ammette, d’altra parte, di aver inviato Giuseppe Cammisa in Somalia, proprio in quel periodo. Quando? La data la possiamo dedurre da un documento ritrovato nell’archivio della comunità Saman, relativo all’importazione di una Mitsubishi station wagon negli Emirati Arabi Uniti, intestato proprio a Cammisa e datato 8 marzo 1994. Nelle note si legge: «In base alla sua richiesta di trasferimento del veicolo in Somalia entro i prossimi quattro giorni». L’automobile sarebbe stata trasferita verso il Corno d’Africa entro il 12 marzo 1994, una settimana prima della morte di Ilaria Alpi. Ma c’è di più.
Sempre negli archivi della Saman c’è un fax inviato da Gibuti – paese confinante con il Nord della Somalia – diretto a Francesco Cardella: «Seguito al nostro fax di ieri informiamo di partire domani 16 marzo per Bosaso ed oltre». Firmato Omar e Jupiter, ovvero il soprannome di Giuseppe Cammisa. Riassumendo: l’8 marzo il braccio destro di Cardella importa negli Eau un’automobile, che trasporta – come? – in Somalia il 12 marzo. Il 15 marzo è a Gibuti, pronto per viaggiare il giorno dopo verso Bosaso e «oltre».
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano intanto giunti a Bosaso, per l’ultimo reportage, per quel «caso particolare» che non riuscirono poi a raccontare. I due giornalisti partirono il 14 marzo da Mogadiscio, per ritornare nella capitale somala solo il 20 marzo, giorno dell’agguato.
Bosaso è una città cresciuta grazie alla cooperazione governativa italiana. Il porto e la principale strada di collegamento – la Bosaso-Garowe – nonché i pozzi per l’acqua potabile sono infrastrutture realizzate negli anni Ottanta, all’epoca del governo amico del Psi di Siad Barre, dalle principali imprese italiane specializzate in infrastrutture. Colossi come la Techint, la Lodigiani, la Federici, la Montedil e la Lofemon hanno lavorato per anni in questa zona strategica del Corno d’Africa. Dietro all’ufficialità della cooperazione si potrebbe nascondere qualcos’altro, attività mai rivelate ufficialmente. Un intreccio micidiale tra traffico di armi e di rifiuti, che avrebbe utilizzato il porto della capitale della Migiurtinia come luogo riservato per affari segreti.
Una nota della Direzione investigativa antimafia di Genova, datata 19 maggio 1997, descrive i rapporti stretti che intercorrerebbero tra alcuni clan di Bosaso e i mediatori di armi – anche pesanti – con base a La Spezia. Un intreccio, scrive la Dia, gestito direttamente da alcuni «massoni spezzini, mittenti di materiale bellico, anche di provenienza dall’Est Europa, nell’area del Corno d’Africa – Somalia». Un’area, questa, che nel 1993 alcune fonti confidenziali definivano estremamente pericolosa: «Da un ulteriore documento si apprende che la provincia di Bosaso è la zona interessata allo scambio di armi e di scaricamento di rifiuti nucleari e industriali e che nel 1993 la zona era off-limits per i giornalisti, soprattutto italiani», conclude la nota.
Zona strategica Bosaso, affacciata su quel tratto di mare che ogni nave diretta al Golfo Persico deve percorrere. Città off-limits per i giornalisti italiani, considerati indesiderati. Base dei pirati della Migiurtinia, bande armate che tengono sotto scacco da alcuni anni le flotte dei mercantili europei, accusandoli di pescare di frodo e di scaricare sulle coste somale le peggiori scorie della nostra industria. Un porto forse più importante della stessa Mogadiscio, discreto, lontano – nel 1994 – dalle truppe Unosom, dai quotidiani conflitti a fuoco, dalle centinaia di morti e dagli agguati che si nascondevano dietro ogni crocicchio della capitale somala.
«Perché questo caso è particolare?», scriveva Ilaria Alpi sul suo quaderno. La risposta a quella domanda, 17 anni dopo la sua morte, potrebbe essere una trama terribile, che vede al centro Jupiter, soprannome di Giuseppe Cammisa, l’uomo di fiducia di Francesco Cardella, che Piero Sebri accusa di aver avuto un qualche ruolo nella fine della straordinaria e coraggiosa reporter del Tg3
Questo testo è tratto dal libro di Andrea Palladino Trafficanti. Sulle piste di veleni, armi e rifiuti (Laterza) e pubblicato sul sito dell’editore