di Luciana Castellina
Fu definita la «prima guerriglia on line della storia». Eravamo alla fine degli anni ’90 e la rete non era stata ancora mai sperimentata in politica. Fu anche grazie a questa mobilitazione, che subito acquistò dimensioni globali, che riuscimmo a vincere – non capita spesso – anche la battaglia parlamentare (per lo meno a livello europeo); e poi, quella definitiva: la rinuncia dell’Ocse, che aveva proposto l’Ami (l’Accordo multilaterale sugli investimenti), ad insistere sul suo progetto che inizialmente era convinta sarebbe passato senza reazioni.
Era il 3 dicembre del 1998. Il colpo decisivo era stato apportato dal primo ministro francese Jospin, che, sotto la pressione della sua opinione pubblica (sempre più vigile delle altre europee in questi casi) annunciò il ritiro della Francia dal negoziato. La vittoria fu festeggiata con grande clamore nel 1999 nel famoso raduno internazionale di Seattle – precursore dei Forum sociali mondiali – dove fu peraltro affossato un altro pericoloso strumento di liberalizzazione selvaggia, il Millennium Round, proposto dall’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio).
Fu in occasione della battaglia sull’Ami che per la prima volta l’opinione pubblica si occupò di un negoziato internazionale su cui, da sempre, le informazioni e le decisioni erano state di esclusiva pertinenza degli organismi preposti. Ricordo ancora la meraviglia dei diplomatici italiani accreditati a Parigi presso l’Ocse quando – ero presidente della Commissione per le Relazioni economiche esterne del Parlamento europeo – andai a chiedere conto di quanto si stava facendo.
«Emergono le Ong che conquistano un diritto d’ingerenza»; «Non è un buon auspicio per la liberalizzazione del commercio e del movimento dei capitali», dichiararono allarmate le burocrazie internazionali. Peggio i 450 dirigenti di multinazionali riuniti nell’assemblea della Camera di commercio internazionale: «L’emergere di gruppi di attivisti rischia di indebolire l’ordine pubblico, le istituzioni legali, il processo democratico». Sconsolato, l’allora ministro dell’economia francese Strauss Kahn concluse: «Dopo l’Ami non si negozierà più come prima».
La lezione appresa non fu che bisognava d’ora in avanti coinvolgere opinione pubblica e parlamenti ma, al contrario, che si sarebbe dovuto negoziare con ancor più segretezza, per impedire indebite intrusioni. Infatti, se negli anni ’90 fu possibile a Marthin Kohr, direttore del Third World Network di Kuala Lampur, di intercettare in rete la bozza con la proposta dell’Accordo dell’Organizzazione mondiale per il commercio e di allertare le Ong; e a Lori Wallach, del Public Citizens Global Watch, di aiutare a diffondere il documento (soprannominato «Dracula»), oggi sarà più difficile fare altrettanto con il negoziato in corso per un Ttip (Transatlantic Trade and Investments Partnership) perché le relative carte sono state «secretate».
Il Trattato in discussione, formalmente lanciato il 13 luglio scorso, è la copia quasi del tutto conforme del defunto Ami: non più elaborato in seno all’Ocse, perché non riguarda più i 29 membri che allora facevano parte di quell’organismo (oggi ce ne sono di più, e fra questi la Cina), ma esclusivamente gli Stati Uniti e l’Unione europea.
Allora fu possibile inventare qualche efficace gioco di parole, per lo meno in lingua francese – «le faux Ami» («il falso amico») o «l’Ami est l’ennemi» – oggi la dizione è più ostica; e soprattutto la capacità inventiva minore perché meno forte è l’impegno di chi sta combattendo contro il progetto: allora a esser coinvolti nella mobilitazione furono 600 gruppi della società civile appartenenti a 75 paesi, oggi ce ne sono solo circa un centinaio e in Italia sembra che quasi nessuno si sia accorto del nuovo Dracula.
Eppure la questione in ballo non era – e dunque non è oggi – di poco conto: in virtù di quell’accordo (e di quello che ora si sta negoziando), ogni investitore straniero, ove i profitti previsti per la sua iniziativa, dovessero risultare ridotti, in virtù di una disposizione delle istituzioni del paese in cui l’investimento è stato fatto, deve esser risarcito. Basta dunque, tanto per fare un esempio, che un bosco non possa più esser abbattuto, che una regola sull’energia proibisca una centrale a carbone, che una norma imponga un più severo controllo sugli alimenti, che una legge o un accordo sindacale conceda maggiori diritti o più alta remunerazione ai lavoratori, perché l’investitore straniero possa reclamare un risarcimento.
E ove dovesse nascere un contenzioso a decidere – ipotesi davvero senza precedenti – non sarebbe un normale tribunale internazionale, ma un arbitrato affidato a avvocati privati. Come si vede si tratta di una vera privatizzazione del potere legislativo, che investe anche l’esistenza dei servizi pubblici, i quali – in nome della competitività più assoluta, che non ammette alcuna forma di intervento statale – non sarebbero più autorizzati a fruire di sostegni statali. Non a caso la federazione sindacale europea ha denunciato come uno dei più temibili effetti del Trattato lo smantellamento dei sistemi sanitari europei.
L’argomento usato dai fautori ieri dell’Ami, oggi del Ttip, in difesa della loro iniziativa, è stato ed è che l’abbattimento di ogni ostacolo tariffario alla circolazione di beni e servizi fra Usa e Ue, creando un’unica grande area di scambio, avrebbe effetti incentivanti per lo sviluppo e l’occupazione. Però le barriere doganali fra i due grandi mercati occidentali sono già minime. Quanto si vuole in realtà colpire sono le barriere non tariffarie: le norme costituzionali, le legislazioni ecologiche, sociali, ecc. In una parola: garantire libertà e sicurezza assolute al capitale transnazionale impedendo ai governi di assumere una qualsiasi misura che possa avere effetto negativo sui suoi interessi. E cioè quelle che nella significativa dizione dei negoziatori vengono chiamate «politiche nazionali superflue».
«Dal diritto dei popoli a disporre di sé stessi al diritto delle multinazionali di disporre dei popoli», ha definito l’operazione il documento accusatorio delle società dei registi, produttori e sindacati europei. I cineasti sono stati in effetti quelli che più si sono mobilitati, visto che con l’annullamento di ogni finanziamento pubblico al cinema europeo questo rischierebbe di scomparire. E hanno ottenuto un primo successo: il Parlamento europeo ha votato in favore dell’esclusione dell’audiovisivo dal Trattato.
È la dimostrazione che se si lotta si può anche vincere. Ma bisogna lottare, e perciò sapere. Invece non si sa quasi niente, in Italia in particolare, dove del nuovo Trattato transatlantico su cui si sta trattando non sa, o almeno non dice niente, né il governo, né il parlamento; e neppure l’opposizione. Sarebbe bene che tutti ci svegliassimo prima che sia troppo tardi: ci va di mezzo lo stesso modello politico-sociale europeo. A che pro continuare a parlare di Europa se diventiamo un pezzetto d’America?
Questo articolo è stato pubblicato sul sito della Fondazione Luigi Pintor il 23 gennaio 2014 e su “Sbilanciamo l’Europa”, supplemento al Manifesto del 24 gennaio 2014