Austerità espansiva: cronache di una manovra di classe

8 Gennaio 2014 /

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di Vincenzo Maccarrone
“Far parte dell’Euro implica prendere misure dure ma necessarie”.
(Y. Mersch [1], membro dell’executive board della BCE, Atene, 8 Novembre 2013)

Dopo un breve periodo di politiche espansive per far fronte alla devastante crisi economica ancora in corso, molti paesi europei hanno attuato pesanti politiche di austerità, con tagli alla spesa ed aumento della tassazione.
Per attuare questa svolta, i politici europei hanno fatto affidamento sulla produzione scientifica dei cosiddetti sostenitori dell’austerità espansiva. Se per molti e molte di noi il nome degli economisti Rehinart e Rogoff è divenuto noto, a seguito dello “scandalo dell’excel“, è in realtà un altro lavoro accademico il testo a cui si sono ispirati molti decisori. E, c’è da esserne fieri, gli autori sono entrambi italiani.
Stiamo parlando dell’articolo, datato 2010, “Large changes in fiscal policy: taxes versus spending” di Alberto Alesina e Silvia Ardagna, economisti di scuola bocconiana emigrati successivamente negli USA. La tesi di A&A è la seguente: non è affatto detto (come predicato dalla scuola Keynesiana) che politiche di austerità provochino un crollo della crescita. Secondo A&A, è possibile stimolare la crescita tramite politiche di riduzione della spesa e delle tasse, grazie all’aumento della fiducia (confidence) del settore privato provocato da queste politiche.

L’aumento di fiducia stimola infatti gli investimenti, che più che compensano la riduzione di domanda pubblica.

“Probabilmente i mercati finanziari attribuiscono ai tagli della spesa corrente una maggiore importanza ritenendo che tali misure abbiano effetti strutturali e benefici di lungo periodo sul bilancio dello Stato e dell’economia (…) La riduzione del tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si traduce anche in più bassi tassi sul credito ai privati. Ciò, ancora una volta, favorisce gli investimenti privati. Sono infatti gli investimenti e le esportazioni, più che il consumo privato, le componenti della domanda aggregata che reagiscono positivamente negli episodi in cui i Governi sono riusciti a riportare il debito pubblico su un sentiero di sostenibilità.” (Silvia Ardagna, Il Sole 24ore, 10/01/2012).

Il paper di A&A ha avuto molta influenza sulle politiche economiche di diversi paesi europei. Gli autori, come riportato da Krugman, hanno fornito una presentazione riservata dei loro risultati nell’Aprile 2010 al consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione Europea.
Irlanda e Gran Bretagna si sono esplicitamente rifatte al lavoro di Alesina ed Ardagna per giustificare le loro politiche di austerità. In generale, l’idea della necessità di politiche di riduzione della spesa per tranquillizzare gli investitori è piuttosto diffusa fra importanti policy-maker europei. Jean Claude Trichet, all’epoca presidente della BCE, nel 2010 dichiarava che “nelle attuali circostanze credo fermamente che politiche che ispirino fiducia promuoveranno e non danneggeranno la crescita, perché la fiducia è il fattore chiave oggi” [2].
Meno di un anno fa, il neo responsabile economico del Partito Democratico Filippo Taddei – in un’intervista [3] che lo scrivente aveva realizzato per l’emittente torinese RadioFlash – aveva giustificato le politiche di austerità attuate dal governo Monti come una scelta basata sulla necessità di restaurare la credibilità, abbassando così il tasso di interesse sul debito pubblico. Un meccanismo simile a quello descritto da Silvia Ardagna nell’intervista al “Sole”.
Per certificare l’insuccesso delle politiche di austerità basterebbe forse gettare lo sguardo fuori dalla finestra. Proviamo a farlo anche coi dati.

Misure di austerità
Misure di austerità

Il grafico è tratto da un articolo di Paul Krugman. Sull’asse delle ascisse trovate la dimensione quantitativa delle misure di austerità espressa in percentuale del PIL. Sull’asse delle ordinate si trova invece l’andamento del PIL nel quadriennio 2008-2012. La spiegazione offerta da Krugman è piuttosto intuitiva: i paesi che hanno praticato le misure di austerità più pesanti (ad esempio la Grecia) sono anche quelli che sono cresciuti di meno (in questo caso sarebbe quasi lecito parlare di decrescita infelice).
Più recentemente, un rapporto dell’economista Jan in’t Veld, ironicamente finanziato dalla Commissione Europea, metteva in luce che le misure dell’austerità avevano contribuito a causare nel periodo 2011-2013 una notevole diminuzione del PIL per molti paesi europei. In particolare, stando al rapporto la Francia avrebbe perso il 4.78%, l’Italia il 4.86%, la Spagna il 5.39% e la Grecia l’8.05% [4].
Dove sta l’errore? Le principali critiche ad A&A sono riassunte sempre da Krugman nel suo articolo. Primo, i due non avrebbero tenuto conto del fatto che i “successi” riscossi da politiche di riduzione della spesa sono venuti a seguito di periodi di crescita economica, e non a seguito di una profonda recessione come quella che stiamo vivendo. Secondo, l’articolo di A&A non tiene conto di variabili esterne al loro modello che potrebbero spiegare l’aumento degli investimenti ben più della fiducia generata da politiche di riduzione della spesa.
Un esempio del secondo punto è rappresentato dall’Irlanda, citata dai due autori come caso studio della loro tesi. Alesina ed Ardagna ritengono le politiche di austerità attuate nella Repubblica d’Irlanda a metà degli anni ’80 la principale causa dell’impetuosa crescita sperimentata dall’isola negli anni ’90. Tuttavia, una rilettura critica della crescita irlandese, anche alla luce del fragoroso crollo dell’economia del paese negli anni recenti, rileva che a causare il boom irlandese è stato piuttosto la situazione macroeconomica internazionale degli anni ’90, in cui l’economia statunitense cresceva trainata dai settori ITC e farmaceutico. La Repubblica d’Irlanda rappresentava l’ideale testa di ponte per gli investimenti americani, ma ad attrarre gli investitori erano soprattutto una tassazione sui profitti estremamente favorevole (per anni l’imposta irlandese sulle corporation ha oscillato attorno al 10 %) e la disponibilità di una forza lavoro anglofona, con livelli di istruzione relativamente alti, flessibile ed a buon mercato.
In conclusione, da ciò che abbiamo appena descritto, dobbiamo dedurre che i governanti europei siano stupidi? A che pro attuare politiche economiche che deprimono i tassi di crescita e mettono a rischio la propria rielezione? Ad utilizzare la tesi della stupidità dei policy-maker è stato niente meno che Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del comitato esecutivo della BCE. In un articolo su voxeu.org, Bini Smaghi ha affermato che:
“I policy-maker europei non sono stupidi perché attuano politiche di austerità, ma attuano politiche di austerità perché sono stupidi o- per dirla in maniera più diplomatica- sono miopi e hanno ignorato altre alternative e sono rimasti, in ultima analisi, con l’unica opzione dell’austerità” [5].
In realtà, coloro che volessero provare a spiegare il perché delle politiche di austerità farebbero bene a ricordarsi a chi convengono e a chi nuocciono. A spiegarcelo è ancora una volta lucidamente Krugman, benché sia un analista borghese ed in sostanza conservatore: le politiche di austerità costituiscono una garanzia per i detentori di titoli di debito, perché assicurano che questi verranno ripagati, e non hanno nuociuto eccessivamente ai profitti dei più ricchi.
Al contempo, esse colpiscono direttamente i lavoratori. Questo ci viene detto dagli stessi Alesina ed Ardagna! Ardagna, nella sua intervista al Sole24 ore, dichiarava anche che “i tagli di spesa corrente riescono ad innescare effetti positivi soprattutto attraverso gli effetti che hanno sul lato dell’offerta aggregata, in quanto generano una moderazione salariale anche nel settore privato, favorendo competitività, profittabilità delle imprese e investimenti privati”.
Alesina, d’altro canto, in un articolo del 2010 ci rammenta che “tagli agli stipendi del settore pubblico possono influenzare le negoziazioni del settore privato, portando ad una moderazione salariale in entrambi i settori. Riduzioni nei sussidi di disoccupazione possono incrementare la volontà dei lavoratori di accettare certi lavori a certi livelli di salario” [6].
Dichiarazioni di una sincerità quasi disarmante, che dovrebbero essere declamate a quanti ancora, anche a sinistra, credono che i politici europei attuino politiche di austerità perché “stupidi”.
NOTE

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