Le parole sono pietre: viaggio nei vocaboli del razzismo

19 Dicembre 2013 /

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Clandestini: viaggio nel vocabolario della paura
Clandestini: viaggio nel vocabolario della paura
di Daniele Barbieri
Credevo di conoscerle tutte le storie più eclatanti di pericolosi terroristi arabi clamorosamente arrestati in Italia e poi… assolti nel silenzio dei media. Ma, ad esempio, quella del tunisino Adel Ben Slimen mi era sfuggita. La racconta Giulio Di Luzio nel suo Clandestini: viaggio nel vocabolario della paura (Ediesse: 160 pagine per 10 euri): 2 anni, 8 mesi e 2 giorni in carcere per una parola mal tradotta e per uno scherzoso «broom» detto al telefono, ma soprattutto per pregiudizio, perché appunto la paura domina e rende molti incapaci di capire.
È proprio un vocabolario quello che Di Luzio ha scritto: dalla A – di aggressione, albanese, allarme-attenzione, arginare-assaltare-assediare, assassino e attacco – via via fino alla U di uomonero, alla V di violenza e vu cumprà, alla Z di zingaro. Nell’introduzione Giulio Di Luzio confessa di averlo iniziato dopo un incontro con una scolaresca, quando un diciassettenne rompe il clima “politically correct” e dice quello che molte/i (purtroppo) mal-pensano. «La paura e l’allarme sociale che i media generosamente confezionano come pacchi-bomba nelle redazioni» funzionano e spargono panico e pregiudizio in mezzo a persone che sono, per altri motivi, incerte e impaurite, dunque altro non aspettano che l’indicazione di un “colpevole” comunque, cioè dell’antico e sempre valido capro espiatorio.

Il libro si apre con una pagina di razzismo istituzionale contro gli immigrati «generalmente di piccola statura e di pelle scura», certamente «poco attraenti e selvatici», possibili stupratori, che attentano alla «nostra sicurezza». È una relazione dell’Ispettorato dell’immigrazione, preparata per il Congresso degli Stati Uniti – nell’ottobre 1912 – sugli… italiani. Fra di loro si consiglia di privilegiare «i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare» e, questo pare l’importante, «non contestano il salario» mentre «gli altri» che provengono «dal Sud Italia» sono molto peggio, da rimpatriare in massa.
Dopo aver giustamente spiazzato chi legge, ricordando che siamo stati per 100 anni un popolo di migranti, Di Luzio parte con le parole «della paura» spesso introducendole con brani celebri (da Ernesto Balducci a Derek Walcott) e accompagnandole con storie esemplari. Dalle bugie dei media alle analisi costruite sul nulla sino alla nave Kater Rades speronata (81 morti, soprattutto donne e bambini) dalla corvetta italiana Sibilla per fermare «gli invasori». Ci sono vicende clamorose – ma dimenticate dai più – come la strage di Erba e le ingiuste accuse contro Azouz Marzouk, senza scordare il «j’accuse» contro le istituzioni italiane di Laura Boldrini (allora portavoce dell’Unhcr, l’organizzazione Onu per i rifugiati). E anche storie tragicomiche: il «clandestino» eroico – salva padre, madre e figlio che stanno annegando – in provincia dell’Aquila che viene ricompensato dal Presidente della Regione, Gianni Chiodi, con queste ambigue parole: «Se veramente è successo quello che raccontano le cronache, questo ragazzo è il benvenuto in Italia».
Utile e propositiva l’appendice finale («le parole giuste» da usare), ma sarebbe stata di aiuto, a mio avviso, una pur breve bibliografia ragionata sul versante giornalistico-linguistico con il rimando ai molti testi utili per storicizzare questo discorso; per dire qualche nome: Giuseppe Faso e Ribka Sibhatu, Marco Opipari e Federico Faloppa, il duo Anna Meli e Marcello Maneri, Kossi Komla-Ebri e il Gianantonio Stella dell’«Orda, quando gli albanesi eravamo noi», ma anche il subito dimenticato «Quindici innocenti terroristi» («Come è finita la prima grande inchiesta dell’estremismo islamico») di Bianca Stancanelli che ha importanti risvolti mediatici o meglio di fanta-giornalismo.
Obietterà qualcuna/o che queste accuse contro i media non coinvolgono chiunque faccia il/la giornalista: siamo una democrazia e dunque l’informazione non viene decisa con veline imposte dall’alto. Verissimo, e infatti nelle redazioni qualche eccezione c’è (Marco Imarisio, per dire uno fra i nomi citati nel libro). Ma l’ostilità verso gli immigrati travolge la maggior parte di coloro che fanno questo mestiere per una questione di meccanismi “a monte”: la scelta delle fonti, i pregiudizi anche linguistici, il conformismo, la pigrizia persino, i format… Di Luzio lo spiega più volte e benissimo, ricorrendo anche all’analisi di Peter Dreier il quale fra l’altro scrive che i cronisti godono di «un guinzaglio sufficientemente lungo da permettere loro tanta libertà di movimento quanta essi desiderano averne».
Forse bisogna concludere con tristezza che in Italia i più non desiderano averla. Ma quel che importa è vedere cosa accade “a valle”, cioè fra coloro che ricevono queste informazioni stereotipate. Alla voce «cacciare» Di Luzio cita uno sconsolato Luigi Perrone, docente di sociologia delle migrazioni: «Chi ha ricevuto la sola informazione dai media ha un’indagine negativa del fenomeno immigrazione». È anche vero che queste banalizzazioni non riguardano solo i migranti. Parlando di guerra, il giornale tedesco «Suddeutsche Zeitung» ricordava che se «domina la semplificazione» in ogni conflitto «i giornalisti più rigorosi procedono sempre ai margini della falsità». Figuriamoci dunque quelli, ben più numerosi purtroppo, che sono meno rigorosi. Ma che il fenomeno della semplificazione e quasi falsità si allarghi ad altri temi “caldi” non sminuisce, anzi, né consola.
Che a livello conscio o inconscio sui media si preferisca dare una immagine negativa dei migranti è dimostrato da un clichè che si ripete all’infinito: nei titoli (quelli che fanno la “memoria” di chi legge) la nazionalità del migrante compare sempre se è aggressore o presunto tale, ma ostinatamente scompare se è vittima (ad esempio di un incidente sul lavoro).
Ogni parola sbagliata conta – specialmente se ripetuta mille volte – perché come ricorda Di Luzio, citando Gianni Rodari, «una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio».
I rapporti internazionali (ad esempio dell’Ecri, la commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, spesso citata nel libro) da anni accusano istituzioni e media di «accrescere l’insicurezza» dei migranti. Un discorso capovolto dunque ma del tutto legittimo: se le cronache vedono (o inventano) solo «clandestini» minacciosi, i fatti documentano invece aggressioni e mobbing contro gli immigrati. Crimini certo ne commettono anche gli stranieri ma – chiarisce Di Luzio – «quasi sempre sono i tipici reati dei poveri, cioè furto, piccola ricettazione, spaccio».
Certo chi scrive (spesso incalzato dagli eventi) può avallare sciocchezze anche in buona fede. Capita anche a chi è più bravo. E infatti, persino Di Luzio nel libro cade in un errore raccontando in modo assai impreciso una vicenda accaduta a Roma il 14 febbraio 2009. Questo non mina l’intero edificio di «Clandestini» che è invece solido e ben documentato. Un altro piccolo errore del libro – ma qui è questione di impaginazione, suppongo – riguarda la bella citazione sul «grigio» a cavallo delle pagine 78-79 che risulta senza fonte, mentre invece è tratta dal libro (citato 2 pagine dopo) «Quando nasci è una roulette».
Un libro utile. Sarebbe bello che questo «vocabolario della paura» presto venisse archiviato come «inservibile», un triste arnese del passato ma – come scrive l’autore – «non sarà facile». Rimandando alla questione di fondo del noi/loro che molte/i immaginano chissà perché più differenti che simili, si potrebbe concludere in poesia. «Siamo diversi come due gocce d’acqua» ci ricorda Giulio Di Luzio citando la poetessa polacca Wislawa Szymborska. «E adesso che sarà di noi senza i barbari? Questa gente in fondo era una soluzione» ironizzava molto tempo prima il poeta greco Costantinos Kavafis. Versi che chiudono il problema dei tanti razzismi nell’unico modo possibile: cercando di tornare alle radici del pregiudizio, all’idea stessa di umanità.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione

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