Cile e Michelle Bachelet: quale vittoria? / 2

5 Dicembre 2013 /

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di Maurizio Matteuzzi
E dopo il ballottaggio
È (quasi) scontato che il 15 dicembre Michelle Bachelet farà suo il ballottaggio, anche se i due candidati giunti al terzo e quarto posto – l’indipendente “progressista” Marco Enríquez-Ominami, la star delle elezioni 2009 quando ebbe il 20% dei voti, e l’indipendente populista di destra Franco Parisi -, hanno detto che non daranno nessuna indicazione di voto al 10% di elettori che ciascuno dei due ha preso domenica, e gli altri 5 candidati minori hanno poco da dire con il loro 5% complessivo. Salvo sconquassi imprevedibili e improbabili, l’11 marzo del 2014 Michelle entrerà per la seconda volta alla Moneda, da cui uscì nel 2010 acclamatissima e con un indice di gradimento superiore all’80%, se pur costretta (non per sua colpa ma per la scelta suicida della Concertación di ri-presentare il pessimo ex presidente dc Eduardo Frei Tagle come candidato) a lasciare il posto al miliardario Piñera, il “Berlusconi cileno”.
La scontro per il ballottaggio appare, prima ancora che politico, simbolico e con un tasso scenografico che non è esagerato definire scespiriano e capace di scuotere un po’ la fama (meritata) del Cile, dopo l’uscita di Pinochet dalla politica e dalla vita, come il paese politicamente più noioso dell’America Latina: due donne a confronto, entrambe figlie di generali dell’aviazione, cresciute insieme e amiche fin dall’infanzia (ma ora, sembra, non più), però il padre di Evelyn, Fernando (“lo zio Fernando” per la piccola Michelle), golpista e membro della giunta militare di Pinochet, quello di Michelle, Alberto, leale ad Allende e per questo arrestato, torturato, morto o ucciso dopo il golpe. Con il ritorno di Michelle Bachelet, che andrà ad affiancarsi all’argentina Cristina Kirchner e alla brasiliana Dilma Rousseff, saranno tre le donne contemporaneamente alla guida di un paese dell’America Latina.

Ma una cosa sarebbe stata entrare alla Moneda dopo aver vinto al primo turno e essersi trascinata dietro una maggioranza ancor più massiccia in parlamento; un’altra sarà entrarci dopo il ballottaggio, che riproporrà inevitabilmente l’immagine di un paese spaccato in due, e con le necessità di provare a negoziare con l’immarcescibile destra cilena le riforme più qualificanti.
Senza scampo
Bachelet questa volta non ha scampo. Nel primo mandato, dopo molte diffidenze iniziali, si conquistò una popolarità straordinaria per via della sua contagiosa empatia personale con la gente; per il fatto di essere la prima donna presidente, “single” con due figli piccoli al seguito ma senza un principe consorte, in un paese conservatore e “machista”; agnostica in un paese bigotto; abbastanza lontana e osteggiata dai giochi dei partiti (anche il suo) e della “política politiquera”. Ma i suoi 4 anni alla Moneda non furono tutti rose e fiori.
Molti l’hanno criticata per non aver voluto o potuto forzare i limiti dell’intoccabile “modello” e del tacito binomio “amnistia-amnesia” che in buona sostanza, come nella Spagna post-franchista, ha dominato anche in Cile la transizione alla democrazia, nonostante durante il suo mandato la giustizia si sia tardivamente risvegliata e abbia spedito sotto processo o in galera qualcuno dei peggiori killer e torturatori della dittatura (ma non Pinochet, mai condannato e morto nel suo letto alla fine del 2010). Fu Bachelet che dovette affrontare nel 2006, con risposte molto deludenti e con l’immancabile uso dei carabineros, la prima grande rivolta degli studenti delle scuole secondarie – i “pingüinos” come si chiamavano per via delle divise scolastiche – contro l’orribile sistema scolastico pinochettista, il più privatizzato, costoso, classista dell’America Latina e non solo.
Nella sua seconda chance Michelle Bachelet dovrà onorare gli impegni presi in campagna elettorale. Almeno alcuni. Impegni pesanti: due “grandi riforme”, quella dell’istruzione e quella del fisco; la reintroduzione dell’aborto (almeno) terapeutico contro cui la poderosa Chiesa cattolica e la destra politica fanno blocco; il dibattito sul matrimonio gay; il “riconoscimento dei popoli indigeni” che pur essendo almeno il 10% della popolazione sono non per caso “dimenticati” dalla costituzione (il calvario dei mapuche del sud cileno, le cui terre, rivendicazioni e diritti sono stati calpestati dalle grandi transnazionali, sempre trattati dalla democrazia del centro-sinistra non meglio e repressi non meno che ai tempi di Pinochet sulla base della stessa “Legge antiterrorista” del 1984).
Dovrà impegnarsi a ristrutturare dalle fondamenta, dalle secondarie alle università (tutte privatizzate da Pinochet e con il profitto d’impresa esplicitamente iscritto fra le loro ragioni sociali), il sistema educativo “più classista e più caro” fra i 34 paesi di quell’OCSE in cui il virtuoso Cile si vanta di essere stato ammesso nel 2010, unico paese del Cono sud: in Cile il costo medio degli studi superiori è di 4000 dollari l’anno, a fronte di un introito medio mensile delle famiglie di livello più basso di 275 dollari, per cui il 70% dei nuclei famigliari cileni si indebita fino al collo e per anni con le banche per far studiare i figli. L’obiettivo dichiarato di Michelle è di arrivare a un’istruzione pubblica “universale, gratuita e di qualità”, senza più fini di lucro per scuole e università che fruiscano di fondi statali e pur nel sacro rispetto di un sistema “misto” di insegnamento, finanziata da una riforma tributaria meno sfacciatamente “business friendly” e in particolare da un innalzamento dal 20 al 25% delle imposte sulle imprese.
Se Piñera se ne va con il peggior indice di gradimento di tutti i presidenti dal ’90 lo si deve anche e soprattutto alle lotte degli studenti universitari che dal 2011 non gli hanno dato un giorno di tregua, trascinandosi dietro il consenso di una larga parte di un paese ancora terrorizzato dal “disordine”, dalle “manifestazioni di strada”, dal conflitto sociale. Non a caso 4 dei loro ex-leader sono stati eletti in carrozza deputati: l’ormai famosa e fotogenica Camila Vallejo e Karol Cariola con i comunisti, Giorgio Jackson e Gabriel Boric come indipendenti di sinistra.
Dovrà impegnarsi a una qualche forma di redistribuzione della ricchezza in un paese che è una “world class success story”, come ci viene ripetuto fino alla noia da più di 30 anni, ma che è anche e non per caso, secondo le stime ONU, uno dei più iniqui e diseguali del mondo, il paese in cui il 5% più ricco guadagna 257 volte più del 5% più povero.
Dovrà provare, e questo è l’obiettivo più difficile (e improbabile), a cancellare l’obbrobrio della costituzione del 1980, che la destra considera il pilastro intoccabile del “modello economico”. A ragione. Perché il modello economico dei famosi/famigerati Chicago Boys e la costituzione politica di Pinochet sono indissolubilmente legati e complementari. Un modello e una costituzione che garantiscono la libertà di lavoro ma non il diritto al lavoro, la libertà di insegnamento ma non il diritto allo studio. Si capisce perché Evelyn Matthei, nel suo programma, dica no e ancora no all’insegnamento gratuito e ad altre proposte “irrazionali”, soprattutto all’idea di cambiare una costituzione che è stata lo strumento ideale per costruire “un paese solido” di cui “siamo orgogliosi”.
Che vorrà e potrà fare
Il Cile della socialista Michelle Bachelet, come quello dei presidenti della Concertación che l’hanno preceduto, non sarà un paese che si affianca all’ala dell’America Latina più “militante” e progressista. Non solo la destra ma anche il centro-sinistra aborre la vaghezza “populista” e conflittuale del “socialismo del XXI secolo”dei Chávez, dei Morales, dei Correa. È estremamente improbabile che “la presidenta” Michelle trovi la forza e la volontà di intaccare a fondo il “modello” imposto/ereditato da Pinochet.
Al massimo, e più probabilmente, potrà provarsi ad accrescere il ruolo dello Stato e rafforzare, richiamandosi all’esempio dei paesi scandinavi, il misero welfare per cancellare alcune delle vecchie aberrazioni e introdurre riforme nel campo dell’istruzione, del fisco, della sanità, delle pensioni, dei diritti civili. Roba non da poco e non facile, anzi il contrario. Ma tutte riforme all’interno dell’ambito istituzionale-costituzionale vigente, e quindi inevitabilmente limitate. Il punto è, come dice Francisco Figueroa, un altro dei leader della protesta studentesca (ma lui non è stato eletto), che in Cile “la transizione finirà solo quando finirà questo modello di Stato”. Che è l’unico modello che questa costituzione consente e impone.
Dovrà stare attenta, però, perché le nuove generazioni, nate dopo il golpe e libere dai suoi traumi, ora che hanno trovato la strada non sembrano disposte a tornare indietro o ad accontentarsi di qualche maquillage di superficie. Si vedrà se “l’irruzione” dei leader studenteschi in parlamento potrà dare una spinta reale verso quei “passi decisivi” che l’evidente “malessere” del paese richiede. Qualche dubbio in proposito è lecito. Meno dubbio che se la “sinistra” Michelle Bachelet dovesse rivelarsi incapace di affrontare quei nodi, gli studenti e i settori di paese che essi sono stati capaci di tirarsi non darebbero tregua anche a lei come non l’hanno data al “destro” Sebastián Piñera. Starà a Michelle e alla sua Nueva Mayoría dimostrare che si sbaglia Melissa Sepúlveda, la nuova e altrettanto fotogenica presidente della FECH (la Federación de Estdiantes de la Universidad de Chile di cui fu leader Camila Vallejo), la “anarchica libertaria” che domenica non ha votato perché “le possibilità di cambiamento non stanno nel Congresso”.
A meno che la compañera Michelle non decida di sorprendere compagni, avversari e osservatori azzardando una missione apparentemente impossibile. Ma per farlo dovrà mobilitare e smuovere il paese, oltre e più che contare sulle manovre in Congresso. Non solo quella parte di cileni che ha votato e voterà per lei (che sono non più del 25-30% dell’elettorato) ma soprattutto quella metà di cileni che domenica non è andata proprio a votare per sfiducia nella politica e nei politici, per stanchezza, per disinteresse, per disincanto.

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