La Calabria, regione semi-sconosciuta all’Italia, ritorna al voto. E lo fa accompagnata dai pregiudizi di sempre, primo dei quali il convincimento che niente può cambiare e niente cambierà. Lontana, affascinante, sfregiata, ombrosa, sicuramente la Calabria è la regione più complessa e fragile, più esposta alla continuità delle sue irrimediabili questioni che aperta a nuove possibilità, quasi la cenerentola politica della nazione, la terza grande isola italiana dopo Sicilia e Sardegna: separata dalla penisola dal mare, dalle montagne e dalla storia, per dirla con le parole di Franco Arminio.
Speriamo almeno che in questo periodo elettorale se ne possa parlare con minore superficialità. A partire dalle valutazioni sulla presunta non volontà dei calabresi di cambiare, di accettare supinamente una classe politica inadeguata, di cui i comportamenti elettorali sarebbero negli anni l’inequivocabile conferma. Aldo Varano, ex corrispondente dalla Calabria del l’Unità, ha più volte sfatato questo resistentissimo luogo comune. Come si fa, infatti, a sostenere questa tesi se nelle ultime cinque elezioni regionali (da quando c’è l’elezione diretta del presidente) i calabresi hanno sempre prodotto con il loro voto un continuo alternarsi tra centrodestra e centrosinistra? Nel 2000 vinse Chiaravallotti (centrodestra) ma nel 2005 il centrosinistra si riprese la vittoria con Loiero; nel 2010 rivinse il centrodestra con Scopelliti, e il centrosinistra si rifece nel 2015 con Mario Oliveiro; mentre nel 2020 il potere è ritornato al centrodestra con la Santelli. Stando a questi dati, la Calabria è in Italia la regione a più alta mobilità del voto. Con la morte prematura della Santelli, è possibile che lo schema del “pendolo elettorale” possa incepparsi. In ogni caso, questo alternarsi di uno schieramento all’altro dimostra che i calabresi votano sulla base di alte aspettative di cambiamento e quando queste vengono deluse bocciano chi li ha governati e premiano l’opposizione. Anche in Calabria, dunque, esiste una pubblica opinione che vota in base a un giudizio esigente su chi governa e non solo su interessi immediati da soddisfare. Se il voto dei calabresi fosse orientato solo dalle clientele o dalla pressione criminale dovrebbe incollarsi a chi è al potere. E invece, a ben interpretarlo, sembra la tipica manifestazione di “voto ribelle”, inquieto, spazientito, insofferente, quasi irriverente che però non trova approdi certi. Certo, il voto clientelare e il condizionamento mafioso del voto esistono (e in alcuni comuni più che in altri) ma anche nelle situazioni più disperate la voglia di cambiamento è prepotente e se ben incoraggiata potrebbe far saltare il tappo che tiene il Sud bloccato. E la Calabria incatenata.
Come spiegarsi questa schizofrenia tra ansia di rinnovamento dei calabresi e continue frustrazioni che derivano da istituzioni resistenti al cambiamento? La spiegazione sta in quella che possiamo definire “la trappola del regionalismo”. Poniamoci questa semplice domanda: le Regioni sono state capaci di superare o attenuare le differenze economiche tra Sud e Centro-Nord esistenti prima della loro nascita nel 1970? La risposta è no: nessuna delle otto regioni meridionali negli ultimi 50 anni ha superato per reddito e attività produttive una regione del Centro-Nord. Nessuna. Le Regioni sono servite almeno a ridurre le differenze tra le due Italie nel campo dei servizi ai cittadini? No, il divario in questi campi (asili nido, assistenza domiciliare agli anziani e agli handicappati, trasporti, strutture sanitarie e scolastiche) si è anch’esso accentuato. Si sono, cioè, esasperate ulteriormente sul piano della salute e delle dotazioni di servizi sociali e civili quelle differenze che già esistevano sul piano della ricchezza. Ai calabresi (e ai meridionali) è stato presentato il regionalismo come una possibilità di uscire dall’arretratezza storica e dotarsi di un apparato produttivo in grado di creare lavoro e di garantire servizi di qualità. Si è trattato dell’offerta di un “dono” avvelenato: le regioni non sono affatto in grado da sole di modificare un divario economico che nel Sud viene da così lontano nel tempo, né tantomeno generare servizi civili migliori laddove l’economia è più debole.
A 50 anni di distanza dalla loro nascita le regioni si sono dimostrate in definitiva istituzioni sostanzialmente ininfluenti sull’economia. Esse, tutt’al più, hanno accompagnato le tendenze economiche già in atto nei loro rispettivi territori, ma non le hanno determinate. È ovvio, però, che una cosa è essere “istituzioni di accompagnamento” dello sviluppo e dei servizi nel Centro-Nord, dove l’economia è più solida, altra cosa è esserlo nel Sud.
Ma la trappola del regionalismo prevede un’altra conseguenza: quando diventa evidente che le regioni di per sé non sono in grado assolutamente di superare divari storici così netti, ecco allora alzarsi il coro: “Siete autonomi, che volete di più! Se non migliorate è solo perché non lo volete.” E così oltre il danno del regionalismo, la beffa del pregiudizio. Il regionalismo meridionale senza sponda nazionale è destinato all’insuccesso. Qualunque sforzo per tirare fuori il Sud dall’attuale difficilissima situazione ha bisogno di anni, di una strategia condivisa, di massici investimenti nazionali e internazionali, di una collaborazione quotidiana tra governo e regioni. Tutto il contrario di quello che avviene oggi.
In genere, quando si dà autonomia a territori economicamente differenti e con un alto dislivello nei servizi, avviene che chi è più avanti corra di più e chi sta più indietro faccia fatica a tenere il passo. Per cui il regionalismo si può trasformare in un fattore attivo delle differenze, al di là delle intenzioni. Resta un mistero come si è potuto varare il regionalismo in un paese storicamente diviso come l’Italia.
Chi ritiene che il regionalismo sia in grado di superare di per sé l’Italia divisa, racconta la moderna favola del barone di Munchausen convinto che ci si possa alzare dal suolo prendendosi per i capelli. Nessuna regione meridionale è in grado di risollevarsi dalla sua arretratezza storica da sola, né tantomeno tirandosi per i capelli.
Il problema della Calabria è la mancata connessione fisica, sentimentale e politica con la nazione, la mancata corrispondenza tra i suoi bisogni e le strategie della nazione. Su questo punto, niente può il voto dei calabresi.
Questo articolo è stato pubblicato su La Repubblica il 28 settembre 2021