Corriere Immigrazione: il business della xenofobia

28 Novembre 2013 /

Condividi su

Claire Rodier
Claire Rodier
di Luigi Riccio
Contro i migranti è in corso una guerra feroce e redditizia. Intervista a Claire Rodier, cofondatrice di Migreurop e giurista del Gisti (Gruppo di informazione e di sostegno agli immigrati).
Droni, radar e migliaia di chilometri di muri per fermare l’immigrazione. Privatizzazione delle strutture di detenzione e delle operazioni di espulsione. Migliaia di vite umane messe sotto scacco dal binomio business-xenofobia. Di questo e altro parla Rodier nel libro Xénophobie business. A quoi servent les contrôles migratoires? (La Decouverte, 16 euro).
Negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, prigioni e centri per migranti sono gestiti da società private con evidenti fini di lucro: G4S, Geo, Gerco. Quali sono i rischi di un business del genere?
«Con la privatizzazione della gestione dei centri e delle espulsioni si hanno semplicemente gli effetti della concorrenza in un sistema capitalista comprendente altre società con le stesse ragioni sociali. Le imprese si trovano a far fronte a dei rischi, a costi da abbassare per essere più competitive e ottenere così i contratti di gestione delle strutture.

Devono fare economia sulla qualità dei servizi e dei cibi, sulle prestazioni e condizioni di detenzione, come ad esempio il numero di persone per metro quadrato nelle camere/celle. In materia di espulsione, perché l’impresa sia redditizia, vanno utilizzate misure coercitive e violente: gli espulsi devono “cooperare”, bisogna fare in fretta e con meno mano d’opera (cioè guardie di sicurezza) possibile. Queste modalità di espulsione hanno ricadute gravi sulla vita delle persone. La società G4S (Group 4 Securior), che ha una fetta di mercato molto importante nei paesi anglosassoni, esemplifica al meglio i tipi di incidenti in cui si può incorrere nel quadro di rimpatri così congegnati: il 12 ottobre 2010, gli agenti di questa società hanno causato la morte per asfissia di Jimmy Mubenga sull’aereo che avrebbe dovuto condurlo a Luanda. Questo può essere considerato un caso estremo, ma è comunque esemplificativo e rappresentativo della realtà».
La violenza quindi non è l’eccezione, ma la regola?
«In casi come questi è difficile avere dati certi, perché molto spesso alle violenze non seguono denunce e quindi i responsabili non sono perseguiti. Grazie ai racconti di persone che hanno potuto parlare con i migranti, però, si può supporre che la violenza durante le operazioni di espulsione e nei centri di detenzione sia parte del vissuto quotidiano. Anche in Italia, d’altronde, la violenza nei Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione), che almeno per ora rimangono un affare pubblico, è diventata una questione ordinaria e ne sono prova le continue rivolte, gli scioperi della fame e le manifestazioni dei migranti trattenuti, spia della pressione esercitata dalle forze dell’ordine».
“Almeno per ora” perché è ipotizzabile anche in Italia la privatizzazione dei Cie e delle operazioni di espulsione?
«Lo è, in Italia e anche in Francia, alla luce di due dati obiettivi. Il primo: il numero dei centri di detenzione per migranti è in aumento ovunque in Europa. Il secondo è dato dalle politiche di razionalizzazione economica, fenomeno che la Francia conosce da qualche anno e che riguarda anche l’Italia, costretta dall’Ue a fare riforme per ridurre le sue spese. Si può legittimamente temere, data la congiunzione di questi due fattori, un’evoluzione in senso privatistico della gestione delle strutture di detenzione amministrativa (in Francia, gli equivalenti dei Cie italiani sono i Cra, Centre retention administrative, ndr). Con la privatizzazione gli Stati avrebbero la possibilità di abbassare i costi che gravano sui conti pubblici, e bilanciare così il proliferare delle strutture».
Lei scrive che la privatizzazione della detenzione e delle espulsioni dei migranti favorisce l’opacità e la diluzione delle responsabilità. Ma in Italia e in Francia, dove i Centri sono controllati dal pubblico, il sistema non è più trasparente. Come se lo spiega?
«Io penso che l’attuale opacità sulla gestione dei centri di detenzione per stranieri rappresenti prima di tutto un fenomeno generale. Allo stesso tempo però credo che la privatizzazione, come negli Usa o nel Regno Unito, vada ad aggiungere una dimensione supplementare: quella di opporre un filtro, reale, in termini di responsabilità. Quando si riesce a mettere in luce dei casi di violenza, per i poteri pubblici c’è sempre la possibilità di rigettare queste responsabilità sulle società private, quando non di diluirle. La privatizzazione è un elemento supplementare a questa opacità».
Il futuro della lotta all’immigrazione irregolare è affidato alla tecnologia: radar, droni, sonde che misurano il tasso di anidride carbonica ecc. Quale posto occupano il rispetto e il valore della vita umana in questa evoluzione del controllo delle frontiere?
«Dietro gli imperativi securitari e economici si nasconde una realtà molto precisa: le tecniche, le modalità di controllo dei flussi migratori stanno diventando una risorsa di mercato per quelle imprese che guardano con sempre più interesse a questo segmento. Personalmente provo molta inquietudine. Avendo lavorato in differenti paesi d’Europa sulle evoluzioni delle politiche di controllo migratorio, ho potuto constatare una profonda degrenerazione nel trattamento delle persone. L’uso sempre più frequente di strumenti militari (droni, radar, satelliti) nell’ambito delle politiche migratorie, è il simbolo più rappresentativoi di questa evoluzione. Non a caso c’è chi ha parlato di “guerra contro i migranti”: i migranti non sono più persone, ma nemici, talvolta associati ai terroristi per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica lo sfoggio di armi e le dotazioni da guerra. I costi in termini di vite umane di queste politiche sono sproporzionati rispetto agli obiettivi e i risultati ottenuti. Non sono efficaci e, cosa più grave, si ignora cosa ci sia dietro, quali siano le le reali intenzioni: economiche, diplomatiche e, non meno importanti, ideologiche».
Grecia, Israele, Stati Uniti: nel mondo sono stati eretti 18.000 mila chilometri di muri per fermare l’immigrazione irregolare. A quali costi e con quali risultati?
«Fare un calcolo economico preciso è una questione complessa. Si hanno delle informazioni, come ad esempio per la muraglia elettronica (con relativo utilizzo di droni e sistemi radar) che divide il Messico dagli Stati Uniti, ma è difficile sbilanciarsi con delle valutazioni complessive. La conseguenza diretta di queste costruzioni, in termini di vite umane, è quella di obbligare i migranti a prendere altre strade, spesso più pericolose e costose, per aggirare le difficoltà rappresentate da questi muri. Non c’è una reale interruzione dei flussi migratori. Essi sono un processo assolutamente irreversibile, implicito nelle stesse caratteristiche della mondializzazione. Un primo esempio di muro in Europa è quello costruito nel 2005 intorno a Ceuta e Melilla, le enclavi spagnole in territorio marocchino. Il risultato? I migranti hanno dovuto correre più rischi, attraversando il mare per raggiungere dalla Mauritiana, dal Marocco o dal Senegal, le isole Baleari. I muri sono solo un pericolo in più per i migranti».
Frontex, l’Agenzia europea per le frontiere esterne, ha siglato vari accordi di cooperazione con Paesi terzi per la lotta all’immigrazione irregolare. Lei dice che grazie a questi accordi, gli Stati membri dell’Ue possono disporre di una diplomazia parallela. Cosa intende?
«Nell’Ue, tutti gli accordi che concernono questioni di sicurezza, che mettono in gioco relazioni, scambi tra polizie o eserciti di diversi Paesi e che implicano la presenza di funzionari europei all’interno di territori di Paesi terzi, suppongono un controllo democratico di questi attraverso il parlamento europeo. Gli accordi di Frontex, definiti invece come “tecnici”, possono bypassare questo passaggio. Qualora fossero definiti quali sono, cioè politici, dovrebbero sottostare al vaglio del parlamento dell’Ue, così come accade agli accordi internazionali. Frontex coordina le azioni di diversi stati membri, in particolare dei Paesi direttamente interessati dal flusso migratorio, come per esempio tra la Spagna e il Senegal o tra l’Italia e la Tunisia. L’Agenzia può quindi discutere, negoziare in termini anche non trasparenti, perché non è obbligata a passare per il vaglio democratico».
Questo articolo è pubblicato sul Corriere immigrazione lo scorso 18 settembre

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati