Amianto in Olivetti: la fabbrica perfetta non esiste

26 Novembre 2013 /

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di Federico Bellono, segretario Fiom di Torino
Quella delle morti per amianto in Olivetti, oltre che dolorosa, è una vicenda complessa che copre un periodo che va dagli anni ’60 agli anni 90: noi stessi, come Fiom, insieme alla Cgil e ai nostri legali, da mesi stiamo lavorando, con il prezioso contributo di ex delegati e dirigenti della Fiom, per ricostruire quanto è avvenuto, allo scopo di svolgere innanzitutto quel ruolo di servizio e assistenza ai lavoratori che ci è proprio e che ci ha portato ad aprire uno sportello informativo in questi giorni.
Al momento la Procura sta indagando su 20 casi di mesotelioma pleurico, relativi a 16 lavoratori deceduti e 4 ammalati e nel registro degli indagati sono iscritte 24 persone, tra cui Carlo De Benedetti e Corrado Passera, per il ruolo svolto in azienda fino a metà anni Novanta. Proprio per questa ragione, però, trovo incredibile che alcuni, a partire dal sindaco di Ivrea, abbiano dato l’impressione di avere come prima preoccupazione quella di “assolvere” i vertici aziendali: non va dimenticanto che la magistratura nell’unico procedimento a oggi arrivato a sentenza ha già riconosciuto la colpevolezza dell’azienda in ben due gradi di giudizio, e il processo si è fermato prima della Cassazione solo per il decesso dell’amministratore delegato dell’epoca Ottorino Beltrami. Cioè le carte processuali hanno dimostrato che l’Olivetti era consapevole della pericolosità di determinate sostanze e agì con grande ritardo.
Peraltro c’è un punto fondamentale per capire questa storia: non stiamo parlando tanto di amianto presente sui tetti o intorno alle tubature, come in tanti casi analoghi, bensì di sostanze (tremolite, ferobesto) usate nel processo produttivo per agevolare le attività di montaggio di macchine da scrivere elettroniche, telescriventi e altri apparati, e quindi trattate manualmente dai lavoratori.

Di fronte a una tragedia come questa, che peraltro è destinata a non rimanere circoscritta ai casi oggi oggetto di indagine, non è tollerabile che ci si preoccupi innanzitutto che venga offuscata l’immagine del “mito” olivettiano o la storia industriale di un’azienda la cui straordinarietà nessuno mette in discussione: ma un atteggiamento eccessivamente celebrativo non può che essere acritico e non aiuta un’adeguata comprensione della realtà, che è sempre più cruda delle mitizzazioni.
Semplicemente l’azienda ideale, perfetta non esiste: per molti aspetti l’Olivetti era un’azienda come tante altre, purtroppo, e con problemi simili: anche lì ci si poteva ammalare e morire di lavoro e anche una dirigenza “illuminata” per definizione ha avuto le proprie responsabilità, al di là della rilevanza penale che i giudici dovranno, e in parte l’hanno già fatto, verificare.
Dire, come ho letto su un quotidiano torinese, che il nome Olivetti non può essere macchiato da questa vicenda mi sembra una stupidaggine: sarebbe inevitabilmente così anche si trattasse di un solo lavoratore morto – e qui comunque siamo già a quota 20. E i numeri sono destinati ad aumentare sensibilmente: sia perché la stessa procura sta raccogliendo nuove segnalazioni, sia perché i tempi di incubazione della malattia possono arrivare fino a 40 anni, tanto che si pensa che il picco sarà nel 2015 e ci si continuerà ad ammalare fin verso il 2020. In più occorrerá verificare eventuali situazioni analoghe in stabilimenti Olivetti fuori dal Canavese: Crema, Massa, Pozzuoli, Marcianise…
È legittimo valorizzare gli aspetti anche straordinari dell’esperienza olivettiana, ma di una storia industriale non si possono prendere solo le parti che convengono. E visto che quella storia è conclusa non sarebbe male una volta per tutte elaborare il lutto per emenciparsi e guardare in modo più laico e disincantato a quell’irripetibile esperienza, in particolare ad Ivrea, dove anche chi chiede giustizia sembra sperare che siano tutti innocenti. Peccato che non sia possibile.

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