Cina: scenari post per il terzo plenum

22 Novembre 2013 /

Condividi su

di Angela Pascucci
Angela Pascucci, l’autrice di questo articolo, sarà a Bologna oggi per presentare il suo libro Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione per il ciclo Un libro e un menu organizzato dall’Associazione Il Manifesto in rete. L’appuntamento è per le 18 al Circolo Andrea Costa (via Azzo Gardino 48) e seguirà la cena a tema.
Mai le aspettative per un evento del Partito comunista cinese erano state così alte come per il Terzo Plenum che si è concluso il 12 novembre. Soprattutto mai erano state tanto alimentate da voci ufficiali , anche di alto rango, sbilanciatesi a preannunciare “riforme senza precedenti” foriere di “trasformazioni profonde nell’economia e nella società” (vedi qui).
Nessuna menzione di riforme politiche, ovviamente, essendo chiaro che poco interessavano ai burattinai dell’economia mondiale, sempre in attesa di nuovi ossi da spolpare. Così, davanti alle dichiarazioni finali consegnate al mondo dal capo dei capi Xi Jinping alla chiusura del Plenum, si è alzato un nutrito coro di delusi, quelli che pensavano davvero che da un’assemblea plenaria del Comitato centrale del Pcc potesse uscire, nero su bianco, il depotenziamento delle imprese di stato e l’apertura di settori dell’economia finora blindati, la privatizzazione delle terre, l’abolizione della residenza obbligatoria (l’hukou) per le centinaia di milioni di contadini migranti diventati operai nelle fabbriche delle grandi aree metropolitane, l’avvio immediato di una sfrenata liberalizzazione finanziaria, la fine della politica del figlio unico e via via per li rami di un cambio di rotta radicale che nella situazione attuale il partito-stato cinese non può permettersi di realizzare in tempi brevi senza rischiare di fare errori e saltare per aria.

E tuttavia il pacchetto partorito dai quattro giorni di conclave non è parso irrilevante a qualche entusiasta, forse più lungimirante dei delusi. Come il Credit Suisse, secondo il quale l’insieme costituisce già ora “l’architettura di riforma più vasta e ambiziosa nella storia della Repubblica popolare”, ammesso che Xi Jinping abbia la forza politica di attuarlo (vedi qui).
I più prudenti però sospendono il giudizio in attesa che sia diffuso, tra qualche giorno, il “Decision report” finale, da cui ci si aspetta qualche dettaglio in più sulla nuova fase. Perché non c’è alcun dubbio: i vertici cinesi si apprestano ad aprire una nuova pista per poter continuare a correre. E, piaccia o no, il Pcc procederà come ha sempre fatto, coi suoi tempi, i suoi modi, le sue “caratteristiche”, i suoi aggiustamenti ideologici.
Senza attendere i particolari, tuttavia, il contenuto del new deal si delinea già nella dichiarazione finale che ne stabilisce alcuni pilastri, nonostante la vaghezza imposta dai riti del Plenum, il cui ruolo è quello di forgiare il consenso dell’élite del Pcc (i 204 membri permanenti dell’organismo) sulla direzione da intraprendere ma lascia poi alle dinamiche generate dalle decisioni la realizzazione effettiva di quanto stabilito. Ed è qui che si misura l’efficacia e la forza della leadership.
Qual è dunque il nuovo che avanza sulla strada irreversibile delle riforme? Priorità al mercato, intanto, che da “basilare” diventa “fondamentale” nell’allocare le risorse, anche se la Cina continuerà a sostenere “il ruolo dominante della proprietà pubblica”. La “questione centrale” sarà semmai come “gestire in modo appropriato il rapporto tra governo e mercato” (vedi Caixin, 12/11).
Erano state promesse riforme “vaste”, e in effetti il documento accenna a decisioni che riguarderanno ben 15 aree importanti, enunciate in modo generico ma che toccano i punti nodali del sistema economico, sociale e politico cinese: riforma fiscale, liberalizzazione dei tassi di interesse e di cambio, unificazione del mercato delle terre edificabili urbane e rurali, sviluppo ecologicamente sostenibile, innovazione tecnologica, liberalizzazione dei prezzi dei beni primari (come l’energia), introduzione di un governo basato sulla legge e costruzione di un sistema giudiziario socialista “equo, efficiente, autorevole”.
La riforma della terra, si legge nel comunicato, è stata “ampiamente discussa” nel corso del Plenum e par di capire che le campagne cinesi, dalle quali era partita la politica di riforma approvata dallo storico Terzo Plenum del 1978, sono destinate ad essere ancora una volta l’epicentro di sommovimenti radicali. Si prevede infatti un nuovo big bang, mosso dai titanici piani di urbanizzazione preannunciati da mesi dal governo come strumento fondamentale di lotta alla povertà e al gap dei redditi, oltre che come volano per lanciare un’economia basata sui consumi interni. I progetti governativi prevedono di portare entro il 2025 il tasso di urbanizzazione cinese al 70% (oggi è al 53%). Altri 250 milioni di cinesi sono dunque destinati in tempi brevi a lasciare le campagne, e raggiungere i 250 milioni che già si sono spostati dagli anni ‘90. Volenti o nolenti.
L’altra faccia dell’urbanizzazione accelerata è infatti un’agricoltura intensiva, più efficiente e meno parcellizzata. Disfarsi della propria terra ( i cui diritti d’uso saranno a questo scopo maggiormente tutelati) sarà incoraggiato, e in cambio potrà, ove possibile, essere offerto un hukou di cittadino con tutte le garanzie di welfare urbano. Una picconata in grande stile a una delle convinzioni cinesi più dure a morire, e non senza qualche ragione. Quella che la terra ha costituito finora l’unico welfare sicuro per i migranti che, sconfitti dalla città, decidono di tornare. Inoltre, poiché le metropoli già scoppiano e sono insostenibili, i nuovi flussi dovranno necessariamente essere convogliati verso un tessuto urbano di città piccole e medie che costituiranno il perno della nuova urbanizzazione.
Da questo quadro emerge il disegno di un “mercato”, della forza lavoro, delle risorse, della terra, dei servizi, dei capitali, sempre più vasto e diversificato, e dall’efficienza spietata. Una “libertà” che imporrà costrizioni ad ampi strati della popolazione cinese. Se ne deduce che la presenza dello stato non sarà meno forte, piuttosto avrà geometria variabile, lasciando agire “gli spiriti animali” finché asseconderanno il disegno complessivo. In modo non dissimile dagli ultimi decenni ma con piani più ambiziosi, e rischiosi, perché la posta si è nel frattempo alzata.
È anche in questa prospettiva che va vista la costituzione di due nuovi organismi, il Comitato per la sicurezza nazionale e il gruppo centrale di guida del Partito. Il primo, che si aggiunge al già enorme apparato di sicurezza interno (il cui budget, oltre 100 miliardi di euro, supera ormai da tre anni quello militare), dovrà prendere decisioni “rapide ed efficienti” in materia di sicurezza e la sua costituzione la dice lunga sui timori dei vertici che i suoi piani di riforma vadano di traverso a una parte consistente della popolazione (visti anche i due attentati che hanno scosso la vigilia). Interverrà certo anche nella coordinazione dell’azione strategica di politica estera (afflitta dai contrasti di una pletora di agenzie in conflitto) ma la dimensione interna continuerà a prevalere.
Il secondo, che avrà l’incarico di redigere, organizzare e far applicare i piani di riforma, risponde direttamente ai vertici del Partito e rivela la volontà dell’attuale leadership, in primis Xi Jinping, di avere il pieno controllo della situazione e di poter tagliare rapidamente i nodi. Ma solo la composizione ne chiarirà davvero la funzione.
Le due nuove entità dimostrano che il partito-stato serra i ranghi, consapevole di stare guidando il paese verso una fase di estrema difficoltà nella quale ogni errore potrebbe essere fatale. La crescita della statura politica di Xi Jinping, che si sta muovendo come un nuovo “uomo forte”, è innegabile e potrebbe segnare la fine della leadership collettiva che dalla morte di Deng a oggi ha consentito al partito di navigare senza gravi bufere interne.
Forse però non è ancora tempo per il ritorno a un timoniere unico. La vigilia del Plenum ha visto un singolare gioco di sponda tra due protagonisti. Da una parte, il Development Research Center del Consiglio di stato, che fa capo al premier Li Keqiang, ha diffuso un piano, denominato 383, secondo l’abitudine cinese di nominare attraverso numeri che descrivono l’articolazione del discorso. Una simulazione in assenza di gravità che ha contribuito ad innalzare oltre misura le aspettative e scatenato l’entusiasmo dei liberisti globali per l’audacia delle riforme ventilate. Il tutto sulla base del Rapporto “China 2030” che lo stesso istituto aveva stilato nel 2012 insieme alla Banca mondiale. (“State Council Think Tank Proposes ‘383′ plan for Reform, Caixin, 28/10/20113). Li Keqiang, tra l’altro, è anche l’anima della Zona di libero commercio di Shanghai inaugurata di recente, nuovo squarcio sperimentale in un’area di riforme avanzate.
Dall’altra parte invece, e con altro tono, il Quotidiano del popolo pubblicava a tutta pagina un articolo dell’istituto di ricerche storiche del Comitato centrale nel quale, citando un discorso di Xi Jinping, si ammoniva a non usare le riforme degli ultimi 35 anni per mettere in discussione i 30 anni che li hanno preceduti (a eccezione della rivoluzione culturale, già ufficialmente consegnata alla dannazione della memoria). Seguiva la raccomandazione ad avere fiducia nell’ intera storia del Pcc e nella via del socialismo con caratteristiche cinesi. Lo stesso Xi dal suo insediamento, avvenuto ormai un anno fa, si è segnalato per una serie di omelie davanti ai membri della Scuola del partito nelle quali, richiamandosi all’Unione sovietica, ha asserito che alla base di quel crollo vi fu, più ancora che l’irrigidimento ideologico del Pcus e il suo allontanamento dalla base, la perdita di attaccamento e di fede nel Partito da parte dei suoi membri.
Più che contrapposizione, uno sperimentato gioco delle parti, nella rappresentazione che vuole il Partito grande interprete di tutte le anime e di tutti gli interessi. Lo stesso Xi è stato definito come la nuova incarnazione di una strategia che “si muove politicamente a sinistra per poter andare economicamente a destra” (vedi Washington Post) , in questo mostrandosi fedele allievo di Deng che raccomandava di “guardarsi dalla destra ma soprattutto di ostacolare la sinistra”. La condanna all’ergastolo del decaduto leader del Pcc di Chongqing, Bo Xilai, seguita da un’offensiva anti corruzione contro tutti i manager delle industrie di stato contigui alla sua cerchia, ha dimostrato con crudezza la continuità della linea. D’altra parte è Deng che ha trasformato il marxismo-leninismo in “ideologia dello sviluppo nazionale” e di conseguenza il Pcc “in un partito di governo al servizio di tutto il popolo” secondo le teorizzazioni della Scuola centrale del Partito. (Cia Xia, vice direttrice del dipartimento di costruzione del partito alla scuola centrale del Pcc citata in Duchatel-Zylberman”Le nouveaux communistes chinois”, Armand Colin 2013). A questa costruzione, Xi Jinping ha aggiunto a mo’ di cemento aggiuntivo il suo “sogno cinese”, che nella chiara allusione al corrispettivo americano prefigura ricchezza e potenza e “la grande rinascita della nazione cinese”, per usare un’espressione dello stesso leader.
Il comunicato finale del Plenum ha puntualmente ribadito che la cosa più importante è “mantenere la guida del Partito” in tempi che richiedono “audacia e passo fermo”. Ma è in un intreccio micidiale di aspettative crescenti e interessi divergenti che la nuova leadership cinese deve ora guidare il paese verso una nuova epoca di riforme radicali, essendo che ormai l’entità dei problemi sociali, economici, ambientali e politici che affliggono la Cina rende lo status quo altrettanto rischioso dei balzi in avanti, per la tenuta del partito unico.
L’esercizio di equilibrismo potrebbe dunque farsi sempre più arduo . Soprattutto se le leve dell’economia, come sembra evidente, sono nelle mani di “tecnici” spesso istruiti nelle università americane, come ben sanno i breviari dell’economia mondiale da The Economist al Financial Times che ogni tanto incoronano qualche zar in cui riporre le speranze di scardinamento del sistema. (Si veda in proposito The long weekend, The Economist, 2/11/2013).
C’è chi, vertici inclusi, ha paragonato questo Terzo Plenum a quello storico del dicembre 1978, quando sotto l’egida del tre volte epurato Deng Xiaoping partì il processo che avrebbe messo la Rpc nell’orbita dell’economia globale. L’establishment dell’economia mondiale invece, che non nasconde il proprio disprezzo per il “decennio perduto” di Hu Jintao e Wen Jiabao, spera che si apra un’epoca pari agli anni ’90, quelli fatidici di Jiang Zemin e Zhu Rongji, coppia “armoniosa” ancora oggi ricordata con nostalgia per la determinazione e la ferocia con cui spazzò via tutti i residui del vecchio mondo e mise le fondamenta della “nuova” Cina. Solo alcuni si ribellarono, nel silenzio dei più, che fornirono invece il combustibile umano per i nuovi record e per la spinta decisiva alla globalizzazione.
Le speranze potrebbero essere ben riposte, basta non avere fretta.
Questo articolo è stato pubblicato da Global Project il 15 novembre 2013

Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

Articoli correlati