Sovrumani silenzi e profondissima quiete: alla ricerca dell'uomo nei quadri di Morandi

16 Novembre 2013 /

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Giorgio Morandi
Giorgio Morandi
di Eleonora Renda
Se è vero che l’uomo è in perenne fuga dall’unica sua più vera verità; se è vero che l’uomo corre, sempre, per lasciarsi quel vuoto alle spalle, quel vuoto di senso, quel vuoto pieno di non-senso; se è vero che l’uomo è pronto a soffrire una vita intera, pur di non trovarsi solo di fronte a un muro, obbligato ad ascoltare quella domanda, quella lacerante domanda cui la filosofia ha sempre tentato di rispondere senza, forse, in fondo, mai volerlo; se è vero che l’uomo tiene in perenne movimento le gambe e la testa, per non trovarsi a sentire quella domanda e, per carità, pensare di offrirle una risposta; se è vero che “gli uomini soffrono a vivere senza passioni ancor più di quanto le passioni non li facciano soffrire” (Jean-Baptiste Du Bos), ecco, allora, che si devono fermare e ammutolire davanti ai quadri di Giorgio Morandi.
Ecco che quegli oggetti senza padrone, e quei tetti innevati, immersi in un silenzio eterno che nulla, nemmeno una mosca o un filo d’aria può rompere, ecco che quei colori non abbaglianti e nemmeno tenebrosi, quei contorni definiti e irreali, quelle profondità né illusorie né mascherate, pongono l’uomo davanti a quel grande, conosciuto e sempre temuto, nemico.

In quel tempo senza lancette, in quegli inverni senza brina, in quei colori spenti senza polvere, in quei vetri senza riflessi, in quelle colline senza vento, ecco che l’uomo sbatte, come il leopardiano islandese, contro la gigantesca natura, nel suo grande nemico temuto e sempre, in segreto, agognato, nell’oggetto della propria fuga e nell’unica, possibile eco delle sue domande, l’unico specchio da lasciarsi alle spalle e nel quale tuttavia volersi perdere, smarrendosi nei riflessi di quell’attesa risposta che, a braccetto con quell’immensa natura, i quadri morandiani paiono fornire: un’aporia che lascia cadere nel vuoto ogni possibile giudizio sulla realtà, ogni pretesa di darle una forma definita, di esprimere un netto punto di vista ed una salda interpretazione.
In quell’atmosfera sospesa, dove ogni segno umano è fin troppo rimosso per non essere notato, l’uomo è posto davanti alla propria esistenza in absentia, obbligato a guardarla, ad indagarla nelle sue curve e nei suoi mattoni, nei suoi silenzi assordanti, nella sua fissità. L’uomo è posto di fronte al mondo senza più uomo, a un mondo che permane, in tetti e bottiglie, senza più occhi che possano vederlo. Un mondo che sopravvive a ogni vivificazione, un mondo che sovverte ogni logica umana, ogni divertissement, ogni senso dato da distrazioni, passioni, filosofie a una permanenza tutta umana dell’uomo sulla terra.
Ecco, di fronte a quei quadri, che l’uomo scorge il nulla, l’essenza della noia che resta in ogni suo oggetto e costruzione, l’essenza stessa che l’uomo ha trasmesso al proprio mondo. Ecco che, con Morandi, l’uomo deve fissare lo sguardo sull’enorme vuoto sul quale si fonda la propria condizione, su quell’infinito vuoto che da sempre sogna di poter colmare, ma che si rivela sempre troppo smisurato per poter realmente essere riempito.
L’uomo è obbligato a guardarsi allo specchio nella sua nullità e abnegazione continua, nella mistificazione che, della propria condizione, ha messo in atto da sempre: con Morandi, l’uomo naufraga nel mare dell’Infinito Negativo.
Questo articolo è uscito sulla rivista Fornofilia e Filatelia
Eleonora Renda, nata nel 1989 a Bologna, ha conseguito la laurea triennale in lettere moderne presso l’iniversità di Bologna con una tesi su Tommaso Landolfi e il mito ed è ora laureanda in italianistica presso lo stesso ateneo. Si interessa di letteratura, arte e spettacolo e fa parte della redazione della rivista Fornofilia e Filatelia, sulla quale scrive.

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