di Stefano Ciavatta
La più famosa è quella di Adolf Hitler in posa a fianco di due ragazzi su una delle terrazze del Museo della Marina a Parigi, immortalati con la Torre Eiffel sullo sfondo, poi ci sono madre e figlia in Normandia che frugano in acqua sulla spiaggia di Omaha mentre gli americani sbarcano da un anfibio. Scendendo in Italia ci sono i paracadutisti della 82° divisione americana che marciano tranquilli sotto la calura di un’estate a Vittoria (Ragusa) o tre mitraglieri inglesi sdraiati ad un angolo di via vittorio emanuele ad Acireale, sotto un cartello affittasi. Sono immagini rielaborate, uniscono il passato degli scatti di guerra, come i soldati che combattono tra le macerie, con la ricostruzione e la quotidianità del presente. Il fotografo autodidatta Seth Taras è stato scelto da History Channel per la campagna Know Where You stand, l’olandese Jo Hedwig Teeuwiss ha aperto un sito chiamato Ghost of History dove le ricostruzioni si possono anche comprare.
Chissà se le foto di Albano Laziale finiranno sui loro computer. Potrebbero sovrapporre la folla che premeva sul cancello dei padri lefevriani con la stessa strada desolata di 70 anni prima, con due partigiani che passano di notte dopo aver assassinato una spia. Verrebbero così a sapere dell’esistenza di Pino Levi Cavaglione, avvocato ligure, antifascista, ebreo e capo della resistenza dei Castelli, e del leader di Albano Marco Moscati, anche lui ebreo ma romano, morto in seguito alle Fosse Ardeatine a cui Albano ha dedicato un largo e la vicina Genzano una via. Entrambi sono i protagonisti di un’epopea rocambolesca e feroce raccontata da Cavaglione (che cambiò il cognome in omaggio alla madre morta deportata ad Auschwitz) in un libro intitolato Guerriglia nei Castelli romani.
Che ci facevano Cavaglione e Moscati ad Albano col mitra in mano? Giuseppe Levi Cavaglione era nato a Genova nel 1911 ed era stato ospite di otto comuni in provincia di Pesaro e di tre campi di concentramento in giro per l’Italia tra il 1938 e il 1943. Già segnalato nel 1937 per i suoi contatti in Francia con Carlo Rosselli subì la condanna di sei anni di confino fino al 29 luglio 1943 in quanto antifascista ed ebreo. Lo racconta la biografia Il Ponte Sette Luci scritta da Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni (Metauro editore). L’8 settembre Cavaglione scappa, raggiunge Roma e il Cln lo manda ai Castelli, l’appendice di Roma, zona dalla forte e complessa tradizione socialista (Gaetano Salvemini era stato candidato nel 1910 ad Albano)e comunista, ma a Frascati ha anche sede il comando del gruppo delle armate dell’Italia centrale e meridionale agli ordini del maresciallo Kesselring, per cui sono frequenti i rastrellamenti e le fucilazioni.
Moscati “era un bellissimo uomo, lo chiamavano l’americano per quanto era bello. Aveva 27 anni quando morì, ed era stato comandante dei partigiani ad Albano. Dopo essere stato tradito dalle parti di piazza dei Coronari, fu arrestato e in via Tasso fu anche torturato”. Prima però Moscati aveva portato ai Castelli il resoconto del rastrellamento del 16 ottobre e Cavaglione appuntava sul diario: “I tedeschi hanno agito con meticolosa ferocia. Bambini lattanti, donne incinte, vecchi paralizzati non hanno trovato pietà. Venivano caricati sui camoin gremiti di altri infelici, con selvaggia furia. Quando potrò cominciare a uccidere qualcuno di questi bruti?”. Ad Albano anche la sezione Anpi porta il nome di Moscati, il suo corpo è stato identificato soltanto nel 2011 (67 anni dopo l’eccidio). Non è il solo clamoroso buco nella monumentalità della tragedia: alle Ardeatine rimangono ancora sconosciute alcune salme, la cui riesumazione e recupero resta a carico delle famiglie. Moscati giace sepolto con un suo fratello, Emanuele, mentre un altro fratello non è più tornato da Auschwitz.
Guerriglia ai Castelli Romani oggi è in catalogo per il Melangolo (2006), in precedenza era stato ripubblicato nel 1971 da la Nuova Italia. Ma ancora prima il diario venne pubblicato da Einaudi nel 1945 e però mai più ristampato dalla casa editrice torinese, forse per l’estrema crudezza delle pagine di Cavaglione, nonostante una recensione di Pavese che già aveva intuito la difficoltà futura di evitare l’agiografia della resistenza e che nella Guerriglia vedeva una eccezione: “Certe pagine di caduti nella guerra di Liberazione le abbiamo lette umilmente, come si legge una preghiera o un testamento, ma a ben altro pensavamo che alla poesia. Che dire invece dei molti opuscoli, racconti, canzonieri che romanzano la materia partigiana, e suppliscono al mancante brivido della sobrietà fotografica con l’enfasi, la caratterizzazione sciatta, il richiamo alla santità della causa, il pittoresco facile, il dialettismo banale?”. Proprio quella ferocia allucinata ma autentica che non aveva tempo nel diario di immaginare la retorica del dopo-Liberazione ha finito per creare imbarazzo, come un parente scomodo. Persino Wikipedia ignora la “Guerriglia” di Cavaglione.
Eppure dietro la gran letteratura dei racconti di Fenoglio, la cui storia editoriale è tormentata e tutt’altro che gloriosa e che oggi rappresenta il vertice della letteratura resistenziale, c’è una fitta memorialistica fiera e agguerrita, senza filtri né velleità letterarie. Quando Meneghello nel romanzo I Piccoli Maestri fa gridare dal partigiano “just a fucking bandit” nell’orecchio dell’ufficiale inglese si chiude il romanzo ma non l’epopea dei banditi. “Si chiamavano ‘rivoltosi’ perché il termine partigiani non era ancora d’uso comune” ha ricordato Gianluca Di Feo sull’Espresso, il primo a richiamare l’attenzione su Cavaglione. Sono tre i libri della furia, della disperazione e della spavalderia della memorialistica partigiana: Banditi di Pietro Chiodi (Einaudi), ancora in catalogo, La Quarantasettesima di Ubaldo Bertoli, stampato da Guanda nel 1961 e poi ripreso da Einaudi nel 1976 per scomparire fino a una recente edizione Monte Università Parma. E poi la Guerriglia nei Castelli Romani.
Ci sono più morti nel diario di Guerriglia che in tutto Bastardi senza gloria di Tarantino. Cavaglione organizza nel dicembre del 1943 il suo Giorno da Leoni (come intitolò poi il film Nanni Loy nel 1961, con Renato Salvatori, Thomas Milian, Saro Urzì, Leopoldo Trieste e Nino Castelnuovo) con l’attacco al ponte delle Sette Luci. Racconta Mario Avagliano: “Fecero saltare in aria un convoglio carico di esplosivi sulla Roma-Cassino, nei pressi di Labico, e il ponte Sette Luci della ferrovia Roma-Formia, a circa 25 km da Roma, mentre vi transitava un treno carico di militari tedeschi, provocando circa 400 tra morti e feriti. Gli ordigni per gli attentati e le informazioni sui treni erano stati forniti da Giuseppe Montezemolo. La paternità dell’azione, per prudenza, fu avvolta da segreto: il Cln non ne diede notizia sulla stampa clandestina e i tedeschi, persuasi che i partigiani italiani non erano così efficienti da compiere azioni di belliche di tale portata, la attribuirono ai paracadutisti inglesi”. Nel diario di guerriglia Cavaglione annota: “No, dannati tedeschi, questa volta il colpo non vi è venuto dal cielo, non vi è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo mai i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme”.
Cavaglione non è un guerrafondaio né un esaltato. Il diario ha una lingua povera, semplice ma di grande vitalità. La maggior parte dei movimenti si svolge di notte, tra sorprese, imprevisti e apparizioni allucinate. Non ci sono pose, è il breviario di una organizzazione ristretta, con poche idee ma certe. “Il tipo di guerriglia che intendo condurre nei Castelli dove non esistono larghi tratti di campagna boscosi e deserti, non richiede molti uomini: ne bastano una decina in ognuno dei paesi di Ariccia, Albano, Genzano, Frascati e Marino”. La guerriglia è fatta di sabotaggi sulle strade consolari disseminando chiodi, del recupero di armi, delle ville assaltate e le collane d’oro rubate e spedite al Cln per finanziarsi, della fuga della spia minorenne che sembra mandare all’aria tutto, dell’incontro con i contadini che nascondo piloti inglese col rischio di venire entrambi fucilati, e è fatta di agguati e uccisioni: “Nel grande Reich una madre in più che piangerà – mi sorpresi a pensare con odio – non è solo mia madre a soffrire. Ma questo pensiero non mi diede alcun sollievo”. Zero propaganda politica, rarefatte le note intime, conta solo l’azione, “il movente dell’azione è un odio istintivo e vitale” scrive Giovanni Falaschi studioso della letteratura resistenziale, e la disperazione per le sorti dei familiari e degli amici: “La crudeltà era ovunque attorno a noi in quegli anni; avvolgeva tutto e tutti. Nella catastrofe definitiva di una società senza leggi e senza avvenire, sola salvezza apparivano i mitra, le bombe a mano, la rivoltella. L’odio verso i tedeschi spiega del come si sia potuto sparare su di loro senza provarne rimorso. Ma oggi tutto ciò è avvolto nelle nebbie del passato. Io stesso che non avevo mai sparato prima e che non ho più sparato nel 1944 ad alcun essere vivente, io stesso considero il Pino di allora un uomo diverso, a me ormai del tutto estraneo”. Levi Cavaglione aprì nel dopoguerra uno studio di avvocato a Genova, militando nel Pci fino ai fatti di Ungheria e aderendo poi al Psi. Ma il giorno in cui compiva sessantanni, il 27 febbraio del 1971 decise di togliersi la vita.
Chissà se nella annunciata (per novembre) Guida alla Roma ribelle (Voland) scritta da Giuliano Santoro, Rosa Mordenti e Lorenzo Sansonetti e che raccoglie una preziosa testimonianza di Carlo Lizzani, verrà vitata l’epopea della guerriglia di Albano Laziale, Castelli Romani.
Questo articolo è stato pubblicato su Europa Quotidiano lo scorso 20 ottobre