di Noemi De Simone
Dal 5 settembre è in vigore la convenzione Ilo sui diritti di colf e badanti. Cosa cambia? Intervista a Piero Soldini, responsabile dell’Area Immigrazione della Cgil.
Nel 2011, in occasione della sua centesima sessione, l’Ilo (International Labour Organization, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso) ha messo a punto la prima Convenzione per le lavoratrici e i lavoratori domestici. L’Italia l’ha ratificata all’inizio del 2013 (è stata il primo Paese Ue a farlo) e adesso questo strumento, che dovrebbe regolamentare il più informale e sommerso dei comparti, entra in vigore.
Il lavoro domestico è uno dei settori su cui hanno insistito molto le campagne sindacali in questi anni.
«Secondo le stime dell’Onu, su 220 milioni di migranti, più di un terzo opera nel settore domestico. In Italia sono almeno 2 milioni. Eppure sono soltanto 800 mila le posizioni assicurative. Questo dato ci dimostra chiaramente la natura “informale” di questo lavoro. La maggior parte dei contratti è dunque sommersa. Ma persino le posizioni assicurative ad oggi dicono molto poco: all’Inps, la maggior parte di esse sono al minimo legale. Il settore è cruciale non soltanto per una questione meramente quantitativa. Ormai il lavoro domestico sta sostituendo il welfare sanitario e rimane ad oggi uno dei pochi settori lavorativi “fertili”: la popolazione invecchia, la domanda di assistenza cresce. Eppure non sempre questo lavoro viene riconosciuto come tale. Al di là dell’informalità del contratto, anche il binomio lavoro-convivenza crea un ulteriore elemento di ambiguità. Assistiamo spesso a pagamenti “in natura”: buona parte del compenso avviene infatti attraverso la concessione dell’uso della macchina, del telefono, del computer. Ben venga dunque una convenzione che punta a regolamentare questo settore e a eliminare disparità di trattamento».
Al comma 5, dell’articolo 1 però, si esclude dalla categoria chi svolga il lavoro “in maniera saltuaria o occasionale”. Ma il lavoro domestico è spesso per sua natura sporadico ed occasionale. Questo primo articolo non pone già un primo grosso limite di applicabilità?
«Una porzione di informalità rimarrà comunque presente nel lavoro domestico: è un limite della Convenzione, ma anche un limite oggettivo. Tutte le forme di legalizzazione di un lavoro oggi illegale vanno chiaramente bene: il voucher, ad esempio, per le prestazioni occasionali. Ma la spinta più forte per un’emersione a mio avviso, può avvenire solo attraverso una leva fiscale».
Nel testo (all’articolo 3) si accenna al lavoro minorile. È un problema ancora attuale?
«Lo sfruttamento del lavoro minorile sembrava “debellato”, superato storicamente. Si è dovuto tornare a studiarlo, monitorarlo e combatterlo soprattutto. Una risposta può arrivare da un quadro legislativo più articolato che definisca una volta e per tutte cosa sia lavoro domestico e che lo regolamenti nei suoi diritti e doveri, in modo da poter avere a disposizione i canali ispettivi necessari. Senza una precisa definizione, è spesso difficile stabilire i confini tra un bambino che aiuta in casa e un bambino che è sfruttato sistematicamente».
Un pregio della Convenzione è quello di porre un argine al potere incontrollato delle agenzie private. Siamo di fronte ad una sorta di caporalato legalizzato?
«La questione delle agenzie private travalica i confini del settore domestico ed è contiguo al tema della tratta. La tratta riguarda per l’80% lo sfruttamento lavorativo, contrariamente all’immaginario collettivo concentrato sul fenomeno della prostituzione. Oggi si assiste ad un’unificazione del ciclo di tratta, quasi fosse un “grande magazzino” che smercia sia organi che colf. Ci vuole quindi un lavoro orizzontale, per governare il flusso dalla partenza. In particolare, per quanto riguarda il lavoro domestico, a forte densità femminile e quindi doppiamente fragile».
Nella convenzione non sono citati, eppure i centri per l’impiego potrebbero costituire una risorsa notevole per lo scambio domanda/offerta e per una prima accoglienza del migrante. Ovviamente a patto di ripensarsi, così come hanno cominciato a fare alcuni consultori, rivedendo gli orari di apertura e il personale addetto.
«Ad oggi i centri per l’impiego non sono fruiti né da autoctoni né da migranti. Su cento contratti, solo tre sono mediati dalle agenzie dell’impiego. Nel settore domestico non esiste un dato specifico. Ci si aggira “a naso” sullo zero virgola. Eppure sarebbe un canale da potenziare perché non deviato da tratte criminali e perché veicolo di informazione accessibile».
Per quanto riguarda il binomio flussi-lavoro, la Convenzione non sembra fare molti passi avanti. L’articolo 8 ribadisce che senza un contratto o un’offerta di lavoro valida nel paese da raggiungere, è impossibile varcare i confini.
«Si è chiaramente voluto render compatibile la Convenzione coi quadri legislativi proibizionistici. Ancora una volta, il diritto alla mobilità rimane legato al rapporto di lavoro. È quindi un accordo al ribasso e non condivisibile. Ci vorrebbe un incontro domanda/offerta più diretto e un titolo di mobilità ad hoc “per ricerca di lavoro”».
Nel modello contrattuale previsto dalla Convenzione, si parla di 24 ore consecutive di riposo. Questa norma potrebbe avere il paradossale effetto di far preferire al lavoratore un contratto in nero?
«Esistono differenze sostanziali tra i lavoratori domestici, per collocazione e motivazione. Certo risulta difficile pensare che una lavoratrice domestica dell’est, venuta apposta in Italia per mandare i soldi a casa, scelga di riposare e perdere un’occasione di guadagno».
Il settore domestico rappresenta sicuramente una sfida per il sindacato. L’88% dei lavoratori domestici migranti è donna, quindi doppiamente vulnerabile. È un settore per sua natura informale, che si svolge entro le mura domestiche che determina anche l’invisibilità come ulteriore problema.
«È così. A questo si aggiunga che se il “padrone” è un pensionato al minimo, un intervento sindacale diventa, se possibile, ancor più complicato. Facciamo un esempio. Il sindacato arriva generalmente a fine rapporto, quando il lavoratore decide di fare vertenza. Capita allora che il sindacato si trovi nell’imbarazzante situazione di dover difendere quest’ultimo da un datore di lavoro magari iscritto allo Spi o alla Funzione Pubblica. Bisogna quindi pensare ad un sindacato innovativo e sperimentale».
Su quali strumenti si è contato fino a oggi?
«In Italia c’è un contratto nazionale del lavoro firmato dai sindacati e associazioni datoriali, ma è un contratto fragile e difficile da rinnovare. Siamo decisamente sotto lo standard medio delle tutele. E si tratta, ripetiamo, di un contratto formalizzato tra parti sociali difficili da rappresentare. Una soluzione potrebbe venire dalla defiscalizzazione degli oneri. Il sindacato chiede un intervento sostanziale su questo. Potrebbe essere un modo per rendere conveniente la buona pratica».
E in Europa come si affronta la questione?
«Anche nel resto d’Europa siamo in fase sperimentale nel trattare questo settore. In Nord Europa alcuni paesi considerano il lavoro domestico “welfare pubblico”. In Francia e Belgio cercano di affidare questo settore a grandi agenzie nazionali che fanno da garanti. Per il resto, è difficile tracciare un quadro unitario. L’Europa è una realtà ancora troppo eterogenea».
Un lavoro delicato come questo, se scarsamente tutelato, lede sì i diritti sindacali del lavoratore, ma compromette anche la qualità del servizio offerto.
«Non tutti i lavoratori hanno i titoli di studio e le competenze per assistere anziani o occuparsi dei bambini. D’altro canto, chi le acquisisce sul campo non può neanche vederle riconosciute. Sulla qualità del servizio incide anche la saltuarietà. Molti lavoratori sono “migratori pendolari”. Spesso tornano nel paese d’origine e si fanno magari sostituire da un amico o un parente, creando un turn-over fuori controllo. È più che necessario tendere alla definizione di un profilo professionale standard che assicuri da un lato riconoscimento competenze, dall’altro qualità per il “badato”. Alcune risposte potrebbero essere la redazione di registri, corsi di formazione professionale, un welfare integrato che garantisca una rete di servizi che rimpiazzi il lavoratore assente, se necessario. Sono proposte che il sindacato sta avanzando, seppure su un terreno difficile».
In definitiva, quanto cambierà effettivamente la situazione per le lavoratrici e i lavoratori domestici ora che la Convenzione è stata ratificata?
«Non basta ratificare una convenzione internazionale per risolvere i problemi. Sicuramente la ratifica va letta come un’opportunità in più, un primo importante passo per inserire il tema in agenda. Ma se non si predispongono le norme nazionali, il quadro legislativo rimane a forte impronta xenofoba. Può essere anche una risorsa per ripensare il welfare. Ma questa è una scelta tutta politica. Sui tempi della politica sono pessimista. In tema di migrazione siamo in fase regressiva. Abbiamo una ministra immigrata e nera, cosa che ha un forte valore simbolico. Ma siamo comunque prigionieri degli attacchi della Lega e di quello che chiamo un “culturalismo sterile” e non si affrontano le questioni di merito. La Bossi-Fini è vigente ormai da undici anni e non si sa per quanto ancora lo sarà. E anche il dibattito sullo ius soli, si è fermato alle chiacchiere. La commissione di affari costituzionali ha tutto tranne che lo ius soli tra le sue priorità. Eppure i migranti sarebbero una risorsa per uscire dalla crisi. Una società multietnica e inclusiva fa avanzare i servizi: mobilita risorse umane, infrastrutturali, sociali. È per questo che bisogna comunque dar corso agli input della convenzione per superare le condizioni di sottosalario e supersfruttamento dei lavoratori domestici. Se non arriva da sindacati e associazioni una spinta a proseguire su questa strada, attraverso mobilitazioni e iniziative, è irrealistico pensare che questo governo possa affrontare positivamente il tema».
Questo articolo è stato pubblicato sul sito del Corriere Immigrazione il 15 settembre 2013