di Margherita Billeri, Mario Centorrino e Pietro David
Un articolo di Claudio Gnesutta [1] ha analizzato i dati relativi al crollo dei consumi in Italia nel 2012, elaborati dal Rapporto Annuale dell’Istat e da un report (5 luglio 2013), sempre dell’Istat, dedicato ai consumi delle famiglie. Ne viene fuori, sostiene l’autore, la fotografia di una fase di transizione verso un modello sociale nel quale, senza interventi correttivi di tipo strutturale, la divaricazione tra settori sociali favoriti e le famiglie in condizioni più disagiate è destinata ad allargarsi.
Il crollo dei consumi in Italia, lo conferma uno studio commissionato dall’Unione Europea (Gini-Growing inequality impact), citato da G. Ruffolo e S. Sylos Labini [2], ha messo in evidenza come l’Italia sia tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e che, nel suo caso, la diminuzione dei consumi si è associata ad un divario nella distribuzione della ricchezza accentuatosi durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale in Italia è in mano al 10% delle famiglie mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.
In un ideale album della crisi, alla fotografia di Gnesutta vorremmo aggiungere un’altra istantanea: il divario dei consumi nel Mezzogiorno, penalizzato peraltro dalla presenza di più alti indici di povertà, rispetto alle altre grandi aree del paese. Cominciamo dalla ricognizione di quest’ultimi.
Val la pena ricordare, prima di proseguire, che, tra il 2007 e il 2012 l’Italia ha perso 113 miliardi di euro (prezzi 2012). Di questi, 72 miliardi di euro sono la quota perduta nel Centro-Nord e 41 miliardi di euro quella del Sud. L’economia meridionale pesava all’inizio del periodo il 24% sul totale nazionale ma ben il 36% del Pil perduto ha riguardato proprio l’economia del Mezzogiorno [3].
Com’è noto, la soglia di povertà relativa, sulla quale poi si calcola la povertà assoluta, è pari per una famiglia di due componenti a 991 euro mensili con conseguenti ponderazioni per altre tipologie familiari. Ora, osservando il fenomeno sul territorio, può subito osservarsi come, ad eccezione dell’Abruzzo (16,5%) dove il valore dell’incidenza di povertà è superiore alla media nazionale (12,7), in tutte le altre regioni del Mezzogiorno la povertà è più diffusa rispetto al resto del paese. Le situazioni più gravi si osservano tra le famiglie residenti in Campania (25,8%), in Calabria (27,4%), Puglia (28,2%) e Sicilia (29,6%), dove, in sostanza, oltre una famiglia su quattro può essere considerata in condizione di povertà. Veniamo alla povertà assoluta calcolata dall’Istat sulla base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che nel contesto italiano, e per una determinata famiglia, è considerato essenziale ad uno standard di vita minimamente accettabile. In Italia, il 5,8% delle famiglie residenti (1 milione e 725 mila famiglie) risultano in condizione di povertà assoluta per un totale di circa cinque milioni di individui. La metà di questi risiedono nel Mezzogiorno che ha però una popolazione pari solo al 34,4% di quella nazionale.
Se operassimo su una mappa della povertà a maggior grado di dettaglio territoriale ci troveremmo di fronte a dati ancora più sconvolgenti: a Palermo ci sono 45 mila famiglie, (centomila persone), circa il 10% in più rispetto allo scorso anno, numeri sei volte superiori a quelli della città della Lombardia e del Piemonte, che dovrebbero sopravvivere con un reddito zero [4].
Vediamo ora le diseguaglianze di reddito disponibile per consumi tra le regioni del Sud e le altre.
In Trentino una famiglia ha una spesa mensile media pari a 3.000 euro circa seguita a ruota dalla Lombardia (2.866 euro) e dal Veneto (2.835 euro). Mentre nel Mezzogiorno il reddito disponibile per consumi è ben più basso: in Sicilia si attesta a 1.628 euro, in Calabria a 1.762, in Campania e Puglia sui 1.896 euro.
Altri parametri denunziano forme di dualismo tra Nord e Sud con riferimento al reddito disponibile. Una ricerca sul grado di esposizione al rischio di indebitamento e misura delle province italiane [5] vede negli ultimi 25 posti della graduatoria unicamente province meridionali (con Napoli all’ultimo posto).
Veniamo ora al taglio dei consumi nel 2012 che riguarda, nel Sud, tra l’altro, abbigliamento (-5%) e arredamento (-4,8%) [6]. Ma soprattutto sono in calo anche le spese destinate alla salute, ferme al Sud al 3,4% del totale dei consumi, a partire dalla riduzione di quelle per i medicinali, per le visite specialistiche e per la cura dei denti, mentre restano stabili quelle per analisi cliniche e accertamenti diagnostici [7].
Abbiamo finora ragionato sui dati. Ma altre osservazioni ci costringono a collegarci con fenomeni meno classificabili dal punto di vista quantitativo.
La “deprivazione” del Mezzogiorno viene vissuta finora senza manifestazione di rabbia sociale quasi invisibili meccanismi di assistenza contribuissero a contenerla e alleviarla.
Invisibili perché appunto nascono dall’economia invisibile: sommersa, criminale, informale. O perché consistono in forme di welfare percepite illegalmente che non ci si preoccupa – forse volutamente – di scoprire e penalizzare.
In sostanza, c’è – possiamo ipotizzare – qualcosa di più nella fase di transizione identificata da Gnesutta: una divaricazione che va oltre condizioni di reddito e che si traduce nel sud in una ampia condizione di illegalità “soft” tollerata. Più pericolosa, a ben riflettere, di un dualismo puramente economico, in teoria superabile con interventi di tipo strutturale. Un’illegalità “soft” ma ormai incistata nel sistema che corrode e vanifica politiche di sviluppo (peraltro oggi inesistenti nel Sud) e smentisce paradigmi consolidati come la tradizionale teoria che vede nell’acuirsi del bisogno la spinta a una rivolta o, quanto meno, a una protesta collettiva. Nel Mezzogiorno, al momento, per dirla con Hirschman non prevale per numerose fasce di popolazione nè l’exit né la voice. Piuttosto come una sorta di “illegal project of life”. Il crollo dei consumi purtroppo non ne dimostra l’abbandono. Anzi, una più efficace rielaborazione.
Note
[1] C. Gnesutta, Cosa ci dicono i dati sui consumi, www.sbilanciamoci.info, 5-7-2013.
[2] Le diseguaglianze insostenibili, La Repubblica, 9 luglio 2013.
[3] Censis, La crisi sociale del mezzogiorno, 2013.
[4] C. Brunetto, Centomila persone a zero euro, La Repubblica – Palermo, 13 luglio 2013.
[5] M. Fiasco, Indebitamento patologico e credito illegale, Camera di Commercio di Roma, 2013.
[6] Analisi sull’andamento dei consumi, non disaggregati per area, segnalano una diminuzione dei consumi, per quattro milioni di famiglie ed uno spostamento degli acquisti in prodotti scontati, marchi senza pubblicità e primi prezzi (Federdistribuzione). Inoltre, a partire dal 2012, i risparmi incrementali sul largo consumo, che in totale sono ammontati a due miliardi di euro, si sono concentrati per il 40,6% nella riduzione di volumi d’acquisto. Quindi in pratica, nel comprare meno cose. Tendenza confermate nei primi cinque mesi del 2013 (indagine Nielsen), cfr. F. Sarcina, La crisi cambia la mappa della spesa, Il Sole 24 ore, 7-7-2013. Si veda altresì E. Livini, Quando stringere la cinghia non basta più, La Repubblica, 3-7-2013.
[7] Dati Istat, 2012.
Questo articolo è stato pubblicato sul Sbilanciamoci.info il 12 agosto 2013