di Daniele Barbieri
Una recensione in ritardo (*) per Fango nero di Sergio Mambrini (Iacobelli editore, 288 pagine per 15 euri)
Vi spiego subito lo strano titolo (5 parole senza virgole oltretutto) del post. Dagli anni ’60 Eugenio Cefis fu uno dei potenti d’Italia. Dunque osannato da molti, come ricorderà chi ha – come me – il privilegio (e/o la sfortuna) di una certa età. Non fu venerato da tutti certo: a esempio Pasolini nel romanzo «Petrolio» vede Cefis come uno dei simboli italiani del rapporto malato tra finanza e politica. Però la maggior parte dei giornalisti o dei presunti «opinion leader» non si sarebbe mai rivolto a Cefis senza reverenziale rispetto; al massimo si ricordava il suo soprannome di «granatiere» dovuto all’altezza che all’epoca del militare, si dice, lo destinò – come allora usava – ai Granatieri di Sardegna. Impensabile dunque che trapelasse il motivato soprannome, o meglio l’acronimo, con il quale Cefis era noto fra gli operai, cioè: cancro enfisema fumo intossicazione silicosi; cinque regali che «il granatiere», ha elargito a dipendenti e popolazioni delle zone intorno agli impianti. A proposito di soprannomi, gli operai di Marghera in un famoso corteo-funerale sostituendo una sola lettera ribattezzarono Mortedison il loro datore di lavoro (ma anche prenditore di salute e di vita).
Questo acronimo di Cefis è invece alle primissime righe di «Fango nero», così da far capire subito dove si colloca l’autore, il mantovano Sergio Mambrini. Il quale sa bene di cosa parla perché in Montedison-Mortedison ha lavorato. Se ne andò poi per affrontare diverse esperienze – fra le altre il circolo Legambiente di Mantova, la Fiab (Federazione italiana amici bicicletta) e il ristorante biologico che oggi dirige – alla ricerca di natura e salute, entrambe negate dalla chimica del capitalismo. «Solo chi ha un luogo da cui evadere assapora appieno la libertà riconquistata» ricorda la quarta di copertina, avvisandoci che «anche noi abbiamo una prigione da lasciare».
«Fango nero» è una sorta di biografia romanzata, assai ben scritta, di Mambrini: vissuta con «l’orizzonte di una forte utopia», quella (o per meglio dire quelle) del 1968 e della sua onda lunga. Vicende anche drammatiche ma raccontate spesso con il sorriso: «ridere ci aiuta a capire sino in fondo i paradossi umani» rammenta il protagonista, «il riso è espressione di democrazia. Non pone ostacoli d’età o di ceto sociale e mantiene vigili le coscienze. Per questo le dittature lo temono». Storie vere dunque anche se – così la nota iniziale dell’autore – qualche ambientazione, taluni episodi, i dialoghi sono romanzati e «le fatali distorsioni della memoria» possono aver indotto in qualche piccolo errore. Ma se pure ci fossero imprecisioni contano zero, a mio avviso: in primo luogo perché qui contano «emozioni, modi di essere, passioni, paure, affetti» dei protagonisti, perlopiù «cocciuti sognatori»; in secondo luogo perché è la trama complessiva che importa. Il solito Severo De Pignolis (chi passa spesso dal blog lo sa: è il tipo che ospito sotto la mia ascella destra) però segnala un piccolo errore filmico: nel film «Il piccolo grande uomo» Dustin Hoffman non è «uno straordinario vecchio indiano» ma un bianco che visse a lungo fra i “pellerossa”.
Nelle ultime pagine del libro si ricorda (anche per un tragico intreccio di storie personali) la tragedia di Stava in Val Fiemme. Il nome vi dice poco? Vuol dire che si è avverata la triste previsione di Luigi Pintor il quale scriveva, su «il manifesto» del 21 luglio 1985: «Dopodomani la Val di Fiemme sarà dimenticata, dopo il rito funebre». Una diga cede: 300 morti e nessun colpevole accertabile perché le leggi consentivano – e ancor più oggi consentono con i recenti provvedimenti di tutti gli ultimi governi – di risparmiare sui costi della sicurezza.
Come l’ambiente e la sicurezza del territorio sono «beni comuni» (questo non è in discussione, comunque sia finito il processo di Stava) così la salute dei lavoratori è tutelata dalla Costituzione, «è un bene indisponibile, un bene individuale ma anche un interesse collettivo. Nessuno può rinunciarvi, nemmeno volontariamente» come ricorda Mambrini, utilizzando le parole di Paolo Ricci. Eppure, con il consenso dei sindacati, nelle buste-paga ci sono le voci «indennità di nocività», «indennità di rischio». Ieri alla Montedison e dintorni (di cui parla «Fango nero»), oggi all’Ilva la salute operaia è in vendita come il territorio, compresi acqua e cibo. Per questo chi sceglie la cura di sé e dell’ambiente, con il suo esempio e con il racconto ci segnala l’alternativa, «un tempo umano dell’esistere, con gli altri e per gli altri». E dunque Mambrini ci consegna una storia importante.
Come fosse un post scriptum… «Qui finisce il libro» si legge in ultima pagina «ma non finisce qui» e (bella idea dell’editore) si raccontano i particolari tecnici: caratteri, carta, lastre ecc. Per chiudere così: «Abbiamo lavorato con passione e cura per realizzare questo libro. Possa avere vita lunga e alla fine del suo ciclo tornare alla natura».
(*) Questa recensione si colloca nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita di non parlare in blog di alcuni bei libri, pur letti e apprezzatri. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e notoriamente baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro … o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimane sospesa per molti mesi. Ogni tanto rimedierò in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. In questo caso il libro era uscito nel luglio 2012 ma mi era sfuggito (ormai ho così pochi soldini che evito le tentatrici librerie) ma alle ore 0,19 – come da dedica – del 16 febbraio 2013 mi è stato donato da Enrico. L’ho letto quasi subito ma sino a oggi non avevo trovato il momento giusto per recensirlo con la necessaria calma.
Questa recensione è stata pubblicata sul blog di Daniele Barbieri