di Sergio Caserta
A Fosca. Anni Settanta, anni ruggenti, vittoria dei vietcong, vittoria della sinistra, luminoso e radioso sol dell’avvenire, tutto mi sembrava bello e raggiungibile: passeggiando per via Petrarca, sulle colline di Posillipo dove i fianchi di Napoli come una bella ninfa distesa, curvano sul mare e le case dei miliardari con le terrazze e le serrande abbassate ti osservano con noncurante strafottenza, pensavo: “prima o poi veniamo su e ve le sequestriamo queste ville del cazzo, brutti mafiosi”, sognavo fanciullescamente la rivoluzione e l’espropriazione dei beni dei ricchi a vantaggio della povera gente.
La facoltà di giurisprudenza era un brutto ambiente, pieno di fasci, lo studio arrancava e non c’era di meglio che lavorare, allora non mancava: lezioni private ai rimandati, contratti trimestrali alla poste, al totocalcio o in tribunale, facchino alla Carlo Erba a inscatolare medicinali e poi via a Rimini a fare il cameriere in pensione (che fatica, il lavoro più duro che c’è, ti capisco, cara Fosca); lavori a termine e precari, ma c’era la prospettiva di inserirsi e quindi alla fine m’inserii, attraverso l’esperienza cooperativa, prima organizzando una coop di disoccupati che gestiva il turismo sociale, poi inviato nelle zone terremotate dell’Irpinia a dare aiuto alle popolazioni e infine con incarichi di crescente responsabilità nell’organizzazione della Lega delle cooperative perché sembra che, allora, fossi piuttosto capace! Stipendiato con contratto regolare, stipendio medio normale ma che mi consentiva di diventare autonomo dalla famiglia.
Com’era diverso allora, perciò adesso in tanti che dirigono e decidono per noi, non lo capiscono,o non lo vogliono capire, cosa comporta accettare la prospettiva di una vita priva di sicurezze.
PS: nel mio caso non faccio fatica a dire che anche il nome è autentico.