Il 29 maggio è uscito sul sito di Costituzionalismo.it il lucido e appassionato saggio di Gianni Ferrara di cui diamo qua sotto ampi stralci. Per la lettura del testo integrale rimandiamo alla pagina originale.
di Gianni Ferrara
È l’affievolirsi progressivo di questa qualificazione che ha determinato la crisi politica che investe le istituzioni dello stato e lo stato stesso. Investe le istituzioni per essere state considerate – e fondatamente – come responsabili dello svuotamento della socialità dello stato e lo stato per aver abdicato alla missione che gli era stata assegnata. C’è una strumentazione duplice nell’età contemporanea che determina l’interazione tra stato-apparato e pluralità umana cui si riferisce.
La strumentazione è la rappresentanza che funge da canale insostituibile del flusso di legittimazione che congiunge la base umana e la sovrastruttura istituzionale statale. Tale strumentazione, perché ignara di bisogni, progetti ed ideali delle masse umane che formano un popolo, si rivelerebbe vuota di contenuto, resterebbe muta di fronte all’apparato istituzionale, se a formulare le domande di soddisfare bisogni, di favorire progetti, rispettare le speranze non fossero soggetti plurimi. Tali perché plurima è l’entità legittimante e, ad un tempo, diversificata per posizione economica e sociale, per cultura, propensione, progetti di vita. Plurima infatti è, quanto a contenuti, ogni domanda che abbia senso politico non immediato e non occasionale.
La pluralità dei contenuti non può essere d’altronde sconnessa ma neanche indifferente a fronte di un qualche criterio ordinatore, coordinatore ed anche selettivo che dia un senso complessivo alla domanda per procurarle una forza condizionante se non addirittura vincolante e comunque idonea a farla valere ed accogliere. È del tutto evidente che riferirsi ad un criterio ordinatore e finalizzato a realizzarsi è lo stesso che richiamarsi ad un principio che non può che essere politico. Sto evocando il partito politico? Sì. Ma definendolo innanzitutto ed essenzialmente come strumento di espressione di domande che emergono dalla società, che alla società possono tornare, previa trasformazione in diritti, in garanzie, in beni disponibili ed appropriabili dalle masse di coloro che quelle domande hanno formulato reclamandone l’accoglimento e che perciò si sono organizzate appunto in partiti politici.
Ho voluto in tal modo significare la necessità dell’inerenza dei partiti alle domande sociali, ai bisogni umani, ai progetti di trasformazione sociale. O anche di difesa degli assetti esistenti. Ma comunque alla loro strumentalità rispetto alle istanze della base umana della convivenza. Inerenza, strumentalità che devono porsi come invarianti e come costanti della dinamica politica per affermarne e riprodurne il senso. Che verrebbe disperso e poi negato se la pluralità dei partiti si configurasse come simmetrica riproduzione degli apparati statali. Autoreferenziali come quelli rispetto ai quali devono invece porsi come espressivi di interessi altri. Altri appunto rispetto a quelli delle istituzioni statali, la cui referenza è data dagli interessi pubblici già legalmente canonizzati (dicastero per dicastero) laddove gli interessi che le domande sociali mirano a soddisfare non sono ancora legalizzati o lo sono ma in modo insufficiente o distorto nella percezione della base da cui partono le domande sociali.
Sono davvero partiti politici quelli esistenti in Italia? Sono qualificabili come estrattori, selettori e portatori di domande sociali coordinate in programmi credibili, non mediati con tutti i contenuti immaginabili e sfocati? Sono stati e sono collegabili a una qualche storia non rinnegata o non confessabile, o non indebitamente appropriata? Sono identificabili in qualche progetto almeno dignitoso di società e di stato, in qualche ideale non fumoso e non pasticciato, si basano su un qualche embrione di democrazia interna non degradata a riti acclamatori occasionali? La risposta è ovviamente scontata. […]
A degradare i partiti in quel che son diventati è stata certamente l’adesione e la conversione alla funzione servente della cosiddetta “governabilità”. Sia perché per una elite (non più di “rivoluzionari professionali”, né di credenti impegnatisi nel sociale per obbedienza al loro sentimento religioso, né di borghesi per difendere con i diritti di libertà, che avevano conquistato per tutti, quello di proprietà da garantire alla propria classe) governare è più attraente che rappresentare. Sia perché la connessione diretta elezione-governo riduce a due sole le cadenze del rapporto fondante della democrazia moderna che è, come è più che noto, quello che procede dall’elezione per conseguire la rappresentanza da cui promana il governo se divisa in maggioranza e minoranze. L’elezione diretta del governo elude la rappresentanza, la comprime, la dissolve nell’investitura del governo sostanzialmente immunizzandolo dalla responsabilità politica, che evapora nello spazio e nel tempo. Nello spazio, per l’enormità che lo allontana dal corpo elettorale. Nel tempo, per la distanza che separa una elezione politica da quella successiva. […]
Ma è necessario rivelare in che cosa sostanzialmente si sia poi tradotta la “governabilità”, in che cosa sia consistita e consista. Si può dire, con sufficiente sicurezza, che si sia trattato e si tratti di una tecnica coattiva funzionale all’esecuzione di imposizioni derivanti da esigenze altre rispetto a quelle proprie dei sottoposti e per obiettivi non scelti da soggetti, istituzioni, organi che li deliberano. Esigenze ed obiettivi che hanno coinvolto gli stati ponendosi al di sopra di essi ma assumendone la forza prescrittiva.
Volere, proporre, mirare a realizzare la “governabilità” equivale a volere, proporre e realizzare una doppia espropriazione. Una a carico dei governi, l’altra a carico dei popoli. La governabilità è trasformazione degli esecutivi mediante la sostituzione del termine del rapporto del quale eseguire il volere. Al posto del Parlamento si colloca il sistema economico, quello capitalistico della finanza globale. Per rendere possibile tale sostituzione è stato però necessario incidere sui fondamenti del sistema statuale, aggredendo la rappresentanza politica. Svuotandola e per svuotarla sono stati operati due altri interventi.
Uno sui partiti politici sostituendone il genoma. Erano nati – lo si diceva – come strumenti della rappresentanza, li si converte rendendoli funzionali alla governabilità. La cui condizione ottimale è data dalla riduzione del sistema dei partiti a due soli, assimilati nel convergere al centro e assicurare l’alternanza di omologhi. È perciò che da portatori delle domande della società sono poi diventati agenzie personali o di consorterie. Non poteva mancare l’intervento definitivo di mutazione genetica dello stato democratico. Ha riguardato l’atto politico che identifica la forma di stato prima ancora che la forma di governo. Inerisce alla declinante deriva della democrazia e ne prepara l’estinzione. Ormai, nel senso comune e per gli effetti derivanti da mistificanti sistemi elettorali, con le elezioni politiche generali non si eleggono più i parlamenti ma i governi. […]
Eleggere governi significa, dunque, eleggere esecutori di dettami normativi sovrastatali, significa sottrarre ai popoli quel potere che fu denominato sovrano provando a rovesciarne la titolarità e l’esercizio dall’alto dov’era verso il basso. Ma che da venti anni viene sospinto verso l’alto restaurandone la collocazione spaziale che gli riservavano gli stati assoluti. Solo che ad una dinastia regnante viene sostituito un modo di produzione dispiegato secondo la più spietata delle sue realizzazioni. L’ordinamento dell’Unione europea è emblematico di questa corrispondenza tra strutturazione economica della società e sovrastruttura istituzionale. […]
Il fallimento del principio e della realizzazione di quest’ultima versione del capitalismo non ha trovato un soggetto storico-politico che ne denunzi il catastrofico fallimento e ne proponga il superamento o, almeno, la transizione verso un nuovo modello di sviluppo economico sociale e politico. L’avversario storico del capitalismo è stato disperso dalla globalizzazione e dal tragico fallimento del socialismo reale. I partiti eredi di quelli che organizzarono e rappresentarono il movimento operaio immedesimandosene hanno accettato il neoliberismo e di fronte al fallimento di quest’ultima configurazione del capitalismo brancolano nella ricerca di mezzi e forme che ne attenuino almeno gli effetti disastrosi. Non traggono però tutte le conseguenze della loro sciagurata acquiescenza al trionfo del loro antagonista.
È in tale congiuntura storica che si è votato in Italia il 24 ed il 25 febbraio scorso per il rinnovo delle Camere del Parlamento. […]
La catastrofica crisi economica è sicuramente l’effetto dell’economia autoregolata del neoliberismo. L’ingovernabilità del Parlamento del bipolarismo fallito e della rappresentanza mistificata è il prodotto della “governabilità” coatta.
[…] è doveroso denunziare le torsioni che sono state perpetrate dal febbraio all’aprile di quest’anno in Italia sulla forma di governo e non tutte ascrivibili alla liquefazione della forma di stato con l’attrazione della sovranità popolare, a mezzo dell’abdicazione degli stati, nella dimensione sovranazionale dell’Eu, per disperderla assoggettandola al dominio del mercato neoliberista.
Il pur pessimo sistema elettorale vigente una maggioranza parlamentare la aveva pur determinata ed era addirittura assoluta alla Camera dei deputati. Solo da questo risultato, da questa situazione di fatto, peraltro inequivocabile, poteva e doveva scaturire l’esercizio, da parte del Presidente della Repubblica, del potere di affidare l’incarico di formare il governo. Incarico che fu infatti affidato, ma alla condizione di “dimostrare in modo certo di avere i numeri per la fiducia”. […] Per essere stata posta ed in tali termini, questa condizione pone problemi.
[…] la nostra come ogni Costituzione lascia tra norma e norma rilevanti ed inevitabili spazi bianchi. A coprirli provvedono le normative di attuazione mediante leggi, regolamenti, consuetudini. A tali normative si aggiungono le convenzioni, che intercorrono tra gli organi supremi impegnandoli reciprocamente in quanto riflettono i rapporti di forza istituzionale che tra essi si stabiliscono e si riconoscono. È in uno di tali spazi bianchi che si aggruma un plus-potere a densità variabile e a titolarità indefinita e perciò disponibile per l’organo che viene a trovarsi, volta a volta, nella situazione di maggiore forza istituzionale. Tale forza, allocandosi in uno dei tre organi che compongono la configurazione essenziale della forma parlamentare di governo, integra la convenzione. […]
Ed è da convenzioni costituzionali che derivano d’altronde sia le consultazioni sia l’incarico di formare il governo. A determinarne la necessità fu il sistema politico a struttura multipartitica. Se tale struttura per contrazione, mutilazione o mutazione genetica cambiasse diventando strettamente bipartitica non solo si realizzerebbe il sogno degli idolatri di tale modello di sistema politico, ma scomparirebbero le consultazioni e scomparirebbe l’incarico, per sopraggiunta e contestuale inutilità.
Pur in presenza di un sistema multipartitico, ma dispostosi in coalizioni contrapposte, a seguito dei risultati avutesi con le elezioni del 2006 e 2008, le consultazioni che in quelle due occasioni precedettero il conferimento dell’incarico di formare il governo furono di mero stile. Così come apparve ed era come del tutto scontato il conferimento dell’incarico di formare il governo al leader della coalizione che aveva ottenuto la maggioranza dei seggi. Pur se, a seguito delle elezioni del 2006, la coalizione che disponeva della maggioranza assoluta alla Camera disponeva al Senato della sola maggioranza relativa. Ad integrarla, quando occorreva, erano infatti i voti dei senatori a vita e di diritto.
Le elezioni del 24-25 febbraio scorso hanno prodotto un risultato esattamente identico a quello del 2006 quanto a composizione dei due rami del Parlamento, quanto a coalizione risultata maggioritaria assoluta alla Camera. Ma al leader della coalizione vincente nei due rami del Parlamento non è stato conferito l’incarico che fu offerto al leader della coalizione vincente nel 2006. A situazione uguale un trattamento diseguale: il massimo di contorsione di un principio giuspolitico cardine della civiltà contemporanea. Una contraddizione anche di immediata evidenza.
Non basta. La richiesta al leader della coalizione vincente di “mostrare di avere i numeri certi” per ottenere la fiducia comportava la dimostrazione anticipata di un comportamento altrui e, per di più, prima ancora che maturassero le condizioni e prima di offrire le motivazioni che avrebbero potuto permettere e quindi consentire, determinare un tale comportamento di forze politiche in Parlamento.
Nel porre la condizione, la richiesta fuoriusciva dalle competenze del Presidente della Repubblica per eccesso nell’esercizio. Perché comportava l’effetto sostanziale di precostituire, rispetto al Parlamento e rispetto allo stesso Presidente del consiglio incaricato, il programma, cioè la premessa e la prefigurazione dell’indirizzo politico del governo, se non anche la composizione del Consiglio dei ministri. Invadeva l’ambito delle competenze dell’uno e dell’altro.
Lo stanno a dimostrare due atti del Presidente. Uno è quello dell’istituzione il 30 marzo di “due gruppi di lavoro” […] L’altro atto sicuramente estensivo delle competenze presidenziali è contenuto nel messaggio che il Presidente Napolitano rivolse alle Camere in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni dopo aver prestato il giuramento di fedeltà alla Repubblica. […] Come a voler attrarre nella esatta configurazione della forma di governo che la nostra Costituzione ha dettato sia la predisposizione dei contenuti del programma governativo come quello disegnato dai documenti dei due gruppi di lavoro che aveva istituito il 30 marzo, sia l’imperiosa affermazione appena operata della necessità politica di realizzare gli obiettivi indicati da tali documenti, il Presidente afferma che non spetta a lui “dare mandati per la formazione del Governo che siano vincolati a qualsiasi prescrizione, se non quella voluta dall’articolo 94 della Costituzione, un Governo che abbia la maggioranza in ambedue le Camere”.
Tesi ineccepibile. Se non se ne traessero alcune conseguenze francamente eccessive. […] Stante la acquisizione di un plus-potere a favore del Presidente della Repubblica prodotta dalla mancanza della maggioranza assoluta al Senato per la coalizione che la ha invece ottenuta alla Camera, la questione che ne deriva è quella della misura di questo plus-potere presidenziale. Poteva e, in via generale può mai, tale plus-potere che la forma parlamentare di governo produce in determinate evenienze a favore di uno dei tre organi cha la compongono, correttamente sottrarre ad uno degli altri due o ad ambedue il contenuto essenziale del potere che a loro deriva dalla presenza nella stessa composizione di tale forma?
A negare detta possibilità è la stessa configurazione del quesito che non può avere diversa risposta se lo si specifica. Se cioè lo si riferisce alla possibilità che ad una maggioranza parlamentare, che il voto popolare aveva resa assoluta alla Camera e relativa al Senato, si possa precludere il potere di esprimere un Governo e di chiedere ai due rami del Parlamento di pronunziarsi su di una mozione di fiducia a tale Governo motivata dal programma enunciato e dall’indirizzo che si impegna a realizzare.
Quel che stupisce è che tale potere di proporsi come maggioranza di governo o comunque come forza parlamentare decidente la formula del governo da costituire non sia stato esercitato. Il che, d’altronde, conferma la recessione del partito politico quanto a dignità politica ed a ruolo, come si notava all’inizio di queste riflessioni. C’è da domandarsi: tale acquiescenza può costituire precedente e vincolare la prassi futura dando origine ad una deminutio del potere parlamentare a vantaggio della sfera dei poteri presidenziali?
Non è detto. Un effetto costitutivo di incremento stabile del potere presidenziale non dovrebbe essersi prodotto. Innanzitutto perché se si dovesse replicare la vicenda che si esamina ben potrebbe una maggioranza zoppa in una delle due Camere rifiutarsi di accedere alla soluzione della crisi risoltasi con la formazione del governo delle “larghe intese”o ad altra soluzione non conforme al suo programma elettorale o addirittura alla sua identità politica. Ma soprattutto perché potrebbe essere constatata la fallacia della concezione del potere presidenziale di nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri fondata sulla idolatria della governabilità e del maggioritario che da trent’anni stanno sconvolgendo la Costituzione della Repubblica e travolgendo la democrazia italiana. […]
Qual è il significato istituzionale di questa vicenda? Lo scrutinio della dottrina costituzionalistica rivela un indubbio straripamento di potere da parte del Capo dello Stato, a detrimento del potere di scelta e valutazione del Parlamento e del rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, rapporto che condiziona la forma stessa del Governo.
Il Presidente Napolitano annunziando la composizione del Governo Letta ha tenuto a ribadire che trattasi di governo parlamentare. Lo è. Ma in una traduzione distorta della forma parlamentare di governo. Distorta dalla dominanza dell’ideologia del “pensiero unico” che ha la governabilità come postulato e il maggioritario come corollario. Dominanza che produrrebbe effetti catastrofici sulla democrazia italiana se dovesse attuarsi il programma annunciato dal Presidente del Consiglio Letta di sfigurare la forma di governo offrendola alla furia autoritaria del berlusconismo istituzionale.
P.S. La traduzione in russo del termine “maggioritario” è: bolscevico. Potremmo chiamare bolscevismo il sistema propugnato, realizzato ed idealizzato in Italia. Un bolscevismo senza rivoluzione. Il culmine della contraddizione.
Si ringrazia Leonarda Martino per l’estrapolazione delle parti pubblicate.