Gli spazi, la cultura e le occupazioni al tempo della crisi / 1

18 Aprile 2013 /

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di Donata Meneghelli
Vorrei partire da una dichiarazione del presidente della Scuola di lettere e beni culturali Costantino Marmo pubblicata il 15 marzo dal quotidiano “il Resto del Carlino”. A Emanuela Astolfi che gli chiede se “dietro le occupazioni” ci sia “un malessere”, Marmo risponde: “Di sicuro viviamo in una fase in cui i tagli sono sotto gli occhi di tutti e il clima generale non aiuta”. E aggiunge: “I problemi dell’università, però, in questo momento sono altri e legati all’applicazione delle nuove leggi che impongono requisiti stringenti ai corsi di laurea per poter sopravvivere” [1].
Credo non ci sia esempio migliore della totale cecità che caratterizza oggi i vertici dell’Ateneo di Bologna e purtroppo anche molti docenti. Perché, diversamente da quanto dichiara Marmo, tra le occupazioni e “l’applicazioni delle nuove leggi” c’è un nesso strettissimo; anzi si potrebbe quasi dire che si tratta dello stesso problema. Nello specifico, ciò a cui si fa riferimento parlando di “applicazione delle nuove leggi” è il D.M. 47 appena emanato: se si vuole essere onesti, più che una serie di provvedimenti da applicare, il colpo di grazia a ciò che resta dell’università pubblica, l’ultimo atto della legge 240 (Gelmini-Tremonti), la quale a sua volta costituisce il punto di approdo di circa un ventennio di interventi contro l’università uscita dalle battaglie del ’68.
Non un’università splendida, intendiamoci, anzi piena di magagne (baronie, rapporti di potere, assenteismo, qualità della ricerca e della didattica molto variabili, verticalità, politiche di diritto allo studio inadeguate, endemica scarsità di fondi), ma relativamente aperta: quella che è stata chiamata università di massa, in cui per la prima volta nella storia nazionale giungevano studenti provenienti da settori sociali tradizionalmente esclusi dall’istruzione superiore. Un luogo, dunque, di tensioni di classe, di mobilità sociale. E anche, pur con i suoi enormi limiti, un luogo di produzione culturale.

Quegli interventi sono andati in direzione di una “modernizzazione” capitalistica, di una precarizzazione sempre più drammatica del lavoro intellettuale (in parallelo e in convergenza con la precarizzazione generalizzata di tutte le forme del lavoro, intellettuale e non), di una crescente contrazione della spesa pubblica, tra cui gli investimenti in ricerca e formazione, di una svolta aziendalistica propugnata in nome dell’efficienza e delle nuove divinità del pensiero neoliberista: il mercato e il profitto. Incontrando – è importante ricordarlo – una irresponsabile connivenza da parte delle gerarchie accademiche, senza eccezioni.
Il famigerato 3 + 2 (la riforma dei corsi di laurea promossa dal ministro Luigi Berlinguer sotto l’egida di Bruxelles, che istituisce un triennio di base e un biennio di maggiore specializzazione), presentato come un tentativo di gestire gli alti numeri dell’università di massa, è in verità il primo passo per rimettere al loro posto coloro che erano entrati, abbassando drasticamente la qualità dell’offerta formativa: parcellizzazione e riduzione dei contenuti, banalizzazione e conformismo dei saperi, ricondotti a un principio tecnocratico e meramente applicativo, in cui pensare è una pratica obsoleta e pure un po’ disdicevole. In un libro di qualche anno fa, Raul Mordenti ha definito questa operazione strategia-Kutúzov: nel romanzo Guerra e pace, il generale russo Kutúzov, incalzato dall’avanzata delle truppe di Napoleone, via via che si ritira ordina di bruciare tutto, in modo che i francesi trovino, al loro arrivo, solo delle rovine [2]. La legge Gelmini-Tremonti ha portato a compimento questo processo, svelandone tutta l’estensione e imprimendo ad esso un ulteriore salto di qualità, su due versanti.
Da una parte, al taglio sempre maggiore dei finanziamenti si è associato quel meccanismo infernale che possiamo riassumere così: ti tolgo le risorse e poi metto come requisito il possesso delle risorse. C’è il blocco del turn over, i docenti che vanno in pensione non possono essere sostituiti e, nello stesso tempo, per tenere aperto un corso di laurea, ci vogliono un certo numero di docenti e un certo rapporto numerico docenti-studenti.
Il risultato lo abbiamo davanti agli occhi o di fronte a noi nei mesi a venire: chiusura dei corsi di laurea, introduzione generalizzata del numero programmato. La prospettiva è la fine dell’università pubblica, una privatizzazione de facto senza nemmeno bisogno di legiferare ad hoc. Del resto, si è anche legiferato, perché il decreto legge n. 133 del 2008 prevede la possibilità di trasformare le università in fondazioni private. Si apre insomma la strada al grande business dell’istruzione superiore, per non parlare – visto che si sta discutendo anche di spazi – della fine che farà l’enorme patrimonio immobiliare degli atenei.
Sull’altro versante, con la legge 240, si è definitivamente insediata, diventando un dogma granitico, la convinzione che la formazione universitaria debba adeguarsi alle esigenze del mercato del lavoro, in barba a qualunque autentica innovazione scientifica, tecnologica, culturale, che dovrebbe semmai anticipare il mercato, non seguirlo, anche parlando in termini strettamente economici e produttivi. Una miopia comprensibile solo se ricordiamo cosa è stata e cosa è la borghesia italiana [3].
Questo testo costituisce una rielaborazione dell’intervento da me presentato al dibattito “La produzione culturale a Bologna”, organizzato dal Circolo il manifesto di Bologna l’11 aprile 2013 e coordinato da Leonardo Tancredi, a cui hanno partecipato il collettivo Bartleby, il prorettore dell’Ateneo di Bologna Roberto Nicoletti, l’assessore alla cultura del Comune di Bologna Alberto Ronchi, Wu Ming 4. Molte delle questioni qui affrontate sono emerse da una discussione tra i Docenti Preoccupati in preparazione dell’iniziativa, in particolare con Raffaella Baldelli Sergio Brasini, Francesca Coin, Monica Dall’Asta, Maurizio Matteuzzi, Giorgio Tassinari. Ringraziamo Sergio Caserta, del Circolo il manifesto, per la tenacia con cui ha voluto realizzare questo momento di confronto.
Note
[1] Emanuela Astolfi, Lettere torna al centro delle proteste. “Adesso recuperiamo il dialogo”, il Resto del Carlino, 14 marzo 2013.
[2] Cfr. Raul Mordenti, L’università struccata. Il movimento dell’Onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2010, p. 36. Mordenti cita questa agghiacciante dichiarazione attribuita al ministro Berlinguer: “Non c’è altra via: o si abbassa la qualità per la massa, o si abbassa la massa (escludendo) per la qualità”. Ibidem.
[3] Anche su questo rimando alla lucidissima analisi di Mordenti in L’università struccata, cit., soprattutto pp. 41-45. Si veda, per esempio: “Credo che sia non solo legittimo ma del tutto necessario che in una società in movimento ci sia una sorta di squilibrio per eccesso delle competenze professionali fornite dal sistema formativo rispetto alla situazione data del sistema produttivo; a ben vedere senza un tale eccesso non ci sarebbe e non ci potrebbe essere alcun avanzamento ma solo ripetizione e ristagno”. Ibidem, p. 43.

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